Una delle grandi dispute sollevate dalla pandemia di Covid-19 riguarda il lockdown. Serve davvero imporre rigide chiusure per limitare la diffusione del virus all’interno di una popolazione? La comunità scientifica si divide in due schieramenti: c’è chi considera l’attuazione di misure rigorose una conditio sine qua non per abbattere la curva epidemiologica e chi, invece, ritiene che chiudere tutto non serva a niente.

Negli ultimi giorni l’Italia si è ritrovata a fare i conti con una repentina crescita di nuovi casi quotidiani: 5.372 nelle ultime 24 ore, 4.458 il giorno precedente, 3.678 tre giorni fa e così via. Se il ritmo di crescita dovesse mantenersi costante, sostengono alcuni esperti, il sistema sanitario del nostro Paese potrebbe non reggere la cosiddetta seconda ondata. Qual è la soluzione?

Per il momento il governo giallorosso prende tempo in attesa del nuovo Dpcm. Aleggia nell’aria lo spettro di lockdown locali, ovvero chiusure mirate nelle aree in cui i contagi sono maggiori. Giuseppe Conte lo ha più volte smentito ma – inutile nascondersi dietro a un dito – la paura più grande è che l’esecutivo possa riproporre un secondo lockdown nazionale.

L’inutilità del lockdown

“Chiudere tutto” non fa automaticamente rima con più sicurezza. Anzi: il lockdown è dannoso tanto per l’economia di uno Stato quanto per la salute della sua popolazione. Come ha sottolineato La Nazione, gli scienziati di tutto il mondo stanno sottoscrivendo una petizione per condannare le chiusure indiscriminate e proteggere anziani e categorie esposte.

Piero Sestili, ordinario di farmacologia all’Università di Urbino, è uno degli italiani ad aver firmato il documento. La sua posizione è chiarissima: “Le misure drastiche prese dai governi hanno ripercussioni a livello di salute fisica e psichica nella gente. Vengono trascurati i malati di tumore, diabetici e cardiopatici. Si è alterato un equilibrio nella società. Sarebbero utili misure meno stringenti, definite di protezione focalizzata”. Attenzione: una posizione del genere non deve essere confusa con il negazionismo. Questa si basa, al contrario, sui dati e sui progressi fatti dai medici nella comprensione della pandemia.

La lezione svedese

Se dobbiamo considerare il rischio calcolato, è innegabile prendere come punto di riferimento la Svezia. Il modello svedese, spesso citato a sproposito, potrebbe rappresentare l’approccio migliore da attuare alla pandemia. Stoccolma ha favorito la ricerca dell’immunità di gregge al totale blocco delle attività economiche. Questa strategia ha funzionato? Stando ai numeri il risultato è assai confortante. Nelle ultime 24 ore si sono registrati 657 nuovi casi e appena 5 decessi.

Eppure il modello svedese è stato preso di mira da gran parte dell’opinione pubblica e dei media. Il grande peccato del Paese scandinavo, sostenevano (e sostengono tutt’ora) i suoi detrattori era quello di non interessarsi abbastanza alla salute dei suoi cittadini. In realtà non solo il governo svedese è riuscito a limitare i danni in campo sanitario, ma ha evitato il collasso economico.

In Italia, dove nei prossimi giorni si attendono decisioni restrittive in chiave anti pandemia, potrebbe essere utile cambiare registro. “In Svezia si è fatta strada l’idea di favorire una sorta di immunità di gregge. Ma potrei fare l’esempio della Germania, dove hanno avuto meno problemi nella gestione dei Covid, un lockdown meno severo che da noi”, ha aggiunto il professor Sestili. Da questo punto di vista una soluzione per scongiurare ogni possibile lockdown potrebbe essere quella di agire sulle categorie più a rischio. In primis, gli over 65 alle prese con malattie croniche. Il pensiero va sempre alla Svezia. Un Paese che, prima di tutti, ha scelto di percorrere proprio questa strada.

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