Anno 2020, Italia, Lombardia, epidemia. Sono sempre stato più bravo a scrivere piuttosto che a parlare. Mi occupo di strategia, armi e geopolitica ma non sono un reporter. Non sono mai stato in zona di guerra come molti dei miei più stimati colleghi, ho indossato la mimetica con le stellette in tempi in cui ci eri obbligato, e sebbene io non sappia cosa voglia dire sentire il fischio di una pallottola sparata verso di me, l’ho indossata con onore e soprattutto orgoglio, svolgendo i miei dieci mesi servizio, quella che si chiamava “la botta”, senza lamentarmi con un numero di “guardie” che non potete nemmeno immaginare: non eravamo proprio dei “marmittoni” nella mia caserma.
Ho una formazione scientifica, e dal giornale, in questi giorni, mi hanno chiesto di parlare del “coronavirus” per chiarirne alcuni aspetti sempre, ovviamente, basandomi sul lavoro di chi lo studia per professione, ma mi piace raccontare storie: leggo, osservo e fisso momenti “su carta”. La mia è una storia del profondo Nord: abito in Lombardia, in una provincia, quella di Lecco, tra le meno colpite dall’infezione ma che confina con quella che è ne è diventata il focolaio principale, quella di Bergamo. Ho la fortuna di abitare in collina, in una piccola frazione piuttosto isolata (750 anime strette intorno a una chiesa, un oratorio e una trattoria), quindi per me questo isolamento che ha trasformato le nostre città in cartoline di altri tempi non ha il sapore ed i suoni di un inaspettato silenzio che permette di riscoprire il canto degli uccelli: qui, in ogni stagione, in ogni tempo, dalla finestra si sentono i suoni della natura prevalentemente.
Alcune cosa però sono cambiate in questi giorni, e servono a dare il metro dell’emergenza che stiamo vivendo. Non si tratta dell’assenza del rumore delle già rare automobili che passavano lungo l’unica strada che attraversa l’abitato, bensì della comparsa di un rumore più sinistro, quello delle sirene. Non so se siano ambulanze, lo presumo, dato il momento, ma in queste giornate di fine inverno, in cui grazie alle temperature via via più miti le finestre si lasciano aperte, arriva il suono di sirene lontane, che fa rabbrividire quando si avvicina: si pensa all’amico, al conoscente, ma soprattutto ai suoi affetti più “agé”. Lo stesso suono che è diventato sinistramente più frequente anche nella provincia di Bergamo ed in quella di Brescia, la seconda più colpita, dopo che il focolaio del lodigiano è sotto controllo. Suoni che si fanno più frequenti e suoni che scompaiono, come quello degli aerei, che sono sempre più rari e che prima si sentivano decollare, in lontananza, dall’aeroporto di Orio al Serio a una manciata di chilometri di distanza. Suoni che sono indice di vita, della normalità di un Paese, di gente che viaggia e che lavora.
Suoni, come quello delle ambulanze, che mi arrivano per interposta persona, tramite testimonianze di altri “colleghi” di scherma che si sono riuniti con tanto entusiasmo e voglia di fare in un progetto regionale (diventato subito nazionale) per cercare di “fare rete” e restare uniti in un momento in cui una stagione è andata perduta, in cui centinaia di maestri ed istruttori non lavorano più e migliaia di ragazzi (e non) sono rimasti a casa: un colpo terribile per uno sport dilettantistico le cui società vivono grazie alle quote di iscrizione e alle (poche) sponsorizzazioni.
Ci sono immagini che raccontano bene quello che sta succedendo in Lombardia e soprattutto nella bergamasca, come le ambulanze ordinatamente in fila per entrare nei reparti di pronto soccorso, e c’è tanta informazione data soprattutto dai giornali locali anche in modo indiretto: sull’Eco di Bergamo, le pagine dei necrologi erano dieci. Dieci pagine riempite con nomi e volti di padri, nonni, ma attenzione perché cominciano ad ammalarsi anche i più giovani.
Si è parlato di “infodemia” per la quantità di notizie che ci arriva in merito all’epidemia, diventata burocraticamente pandemia quando lo era già da un pezzo. Non sono d’accordo con questo termine, e non perché io, nel mio piccolo, campi scrivendo. L’informazione non è un virus, non è un’epidemia, ma è il nostro approccio ad essa che può renderla utile o tossica e sta quindi a chi ne usufruisce selezionarla.
Almeno noi possiamo farlo, altrove, proprio in Cina, non è possibile, tanto che solo ora sappiamo che il virus ha cominciato a circolare ben prima di gennaio: a novembre c’erano già stati i primi casi e la comunicazione dello scoppiare di una nuova epidemia è arrivata, colpevolmente, solo il 31 dicembre. La propaganda ora gioca un ruolo fondamentale è sta rimbalzandosi la responsabilità sulla nascita del virus: questioni geopolitiche che solo nel 2003, con la Sars, sarebbero state inimmaginabili. Il mondo cambia e noi con esso, ed il mondo cambierà dopo questa pandemia.
L’informazione. Sembra che non arrivino i giusti messaggi, forse perché, come sempre accade, si pensa “a me non accadrà” a tutti i livelli, tra quartieri, città, regioni e Stati confinanti. Eppure accade. Qui interi ospedali, come il S. Leopoldo Mandic di Merate, in quella parte della provincia di Lecco confinante con quella di Bergamo, è stato quasi del tutto riconvertito per accettare l’altissimo numero di pazienti colpiti da Covid-19, così anche nelle strutture della provincia di Bergamo o Brescia.
Quasi tutte le strutture sanitarie della Lombardia sono state riorganizzate nei loro reparti separando le competenze. Tradotto: adesso se si ha bisogno di un trattamento ortopedico per una semplice caduta non si può andare nell’ospedale più vicino ma in una struttura più lontana. I tempi di arrivo si allungano quindi, e pensate se doveste aver bisogno di rianimazione per un infarto o un ictus. Preoccupante. Ecco anche perché dobbiamo stare a casa: per non andare a sovraccaricare ulteriormente il carico di lavoro del personale medico. Sta accendo, però, una cosa ancora più terribile: a Bergamo non si sa più dove mettere i cadaveri, e si lasciano nelle chiese, come quella del cimitero, trasformate in camere mortuarie. Bare che vengono portate via con camion militari dirette verso altre città, perché non i morti sono troppi e non si riesce a seppellirli o a cremarli. Uno strazio, vissuto compostamente e silenziosamente dai bergamaschi, che abbiamo visto sui social o in televisione.
Intanto in Italia si fanno flash mob per esorcizzare la paura, si è cantato l’inno nazionale dai balconi. “Ci siamo riappropriati dei balconi”, si è detto in una frenesia egotica da social. La gente però sta morendo, stanno morendo i deboli, non solo anziani, e muoiono da soli, perché non c’è possibilità di abbracciarli o solamente vederli prima della dipartita nelle terapie intensive: persone trasformate in collettori viventi di tubature. Una morte lenta, attenuata da sedativi.
Il pensiero quindi va a chi è al fronte in questa battaglia: medici infermieri che sono in prima linea, personale delle Forze dell’Ordine e Armate, senza dimenticare chi ci permette, col proprio quotidiano lavoro, di continuare ad avere cibo sulle nostre tavole e l’accesso ai servizi basilari. Loro non erano a casa a suonare uno strumento o l’inno nazionale come se fossimo in discoteca.
Sarà perché quell’Inno l’ho cantato, orgoglioso e mi ha fatto male vedere e sentire quella musica usata fondamentalmente per un narcisismo social. Sarà anche perché la gente sta morendo, silenziosamente, e perché occorre rispetto per chi sta lavorando altrettanto silenziosamente e indefessamente per sconfiggere la malattia o per darci di che apparecchiare la tavola ogni giorno.
“È una questione psicologica” è stato detto. Sarà. Però ci stanno chiedendo di restare a casa, nel comodo dei nostri salotti, al tepore delle nostre cucine, non di andare in trincea: davvero siete angosciati per essere costretti in casa? Davvero è fondamentale il diritto all’aperitivo o alla corsa al parco?
Dignitoso silenzio. Rispetto. Parlate col vicino di casa dalla finestra, parlate coi vostri parenti e amici al telefono, chiamate il vostro ex commilitone, appendete il Tricolore alle finestre o ai balconi se volete, se vi serve, il mio lo porto dentro il cuore ogni giorno, e speriamo che i colori non sbiadiscano aspettando il momento in cui, magari, lo sventoleremo per strada tutti insieme.