Le esperienze internazionali mostrano sempre più come il ruolo della vitamina D sia molto incisivo nella lotta contro le forme più gravi del Covid. Dai Paesi scandinavi all’Italia non mancano gli esempi di protocolli che danno credito agli studi fin qui condotti. Il perché è presto detto: gli integratori di vitamina D hanno costi irrisori e aiutano a far vincere la battaglia contro l’epidemia già da casa evitando il sovraffollamento degli ospedali. Tuttavia, nel nostro Paese, lo studio è preso in considerazione solo dalla Regione Piemonte.

Gli studi sulla vitamina D

L’importanza della vitamina D è riconosciuta sin dai tempi in cui la ricerca scientifica ha mosso i primi passi. Tra i numerosi benefici che essa è in grado di arrecare al corpo umano ve n’è uno che, in questo momento caratterizzato dalla pandemia da coronavirus,  non può essere sottovalutato. Si tratta della capacità di ridurre il rischio di influenze e malattie legate alle vie respiratorie. Studi specifici hanno dimostrato come la sua carenza possa portare ad una maggiore esposizione al rischio di contrarre la polmonite. Tra le ricerche eseguite di recente, a confermare le varie tesi in tal senso v’è quella eseguita a Tor Vergata e che ha messo in evidenza come la presenza di vitamina D nel sangue sia stata fondamentale per prevenire i casi di Covid in forma grave. Al contrario, i casi di esito fatale, sono stati ricollegati a chi presentava valori di vitamina D significativamente inferiori del 40% rispetto ai soggetti sopravvissuti. Lo studio italiano è approdato in una delle riviste scientifiche più importanti al mondo: The Journal of the American College of Nutrition.

Non è un caso se in un’altra prestigiosa rivista, ossia The British Medical Journal, il 7 aprile dello scorso anno stati pubblicati altri simili studi condotti dal ricercatore Robert A. Brown nella quale si legge: “Probabilmente è urgente che la ricerca sia fatta, per determinare se la carenza di vitamina D nel caso di COVID-19, incida su  infezione, progressione, gravità e mortalità. I test della vitamina D nel sangue sono economici. Le cartelle dei pazienti devono essere conservate in ogni caso. Il lavoro aggiuntivo e l’onere del rischio nel prendere le misurazioni della vitamina D sono limitati. Tuttavia, la ricompensa potrebbe essere molto significativa, persino un punto di svolta”.

Il “paradosso scandinavo”

Nel nord Europa vi è la grande penisola scandinava composta da diversi Stati la cui posizione geografica e l’alta latitudine determinano la rigidità del clima. In Norvegia così come in Finlandia o in Danimarca, poter godere dei caldi raggi solari diviene pressoché una chimera. Motivo questo per il quale, sin da sempre, si è cercato di sostituire l’apporto naturale di vitamina D, assorbita tramite l’esposizione al sole, con degli integratori. In questi Paesi, sin da bambini, si viene educati all’assunzione di questa vitamina perché appunto ritenuta di fondamentale importanza. A confermare su InsideOver le “abitudini” scandinave è il presidente della fondazione Hume Luca Ricolfi: “Essendo popoli molto evoluti, proprio per questa carenza ambientale la somministrano da diversi anni artificialmente ai bambini fin da neonati”. Ed ecco che durante la pandemia, soprattutto con riferimento alla seconda ondata che ha investito l’Europa, sono emersi alcuni dati di particolare importanza.

La Finlandia ad esempio, secondo quanto riportato dalla Cnn, “ha registrato la media più bassa d’Europa di infezioni e decessi pro capite negli ultimi mesi. È riuscita a contenere i focolai locali pur seguendo alcune delle restrizioni più rilassate del continente”. Tutto questo nonostante “i movimenti interni non erano limitati – si legge nel documentario del network di Atlanta – chi ne aveva bisogno poteva frequentare la scuola e i luoghi di lavoro di persona e non era obbligatorio indossare la mascherina”. Analogo discorso vale per Norvegia e Danimarca. L’educazione all’assunzione di vitamina D in questi ruoli potrebbe aver giocato un ruolo decisivo nel contenimento della mortalità per Covid.

L’esperienza inglese e spagnola

In Spagna le ricerche su possibili effettivi positivi dettati da specifiche cure basate sulla vitamina D, sono partiti nella seconda metà del 2020. Uno studio pubblicato su Lancet ha dato riscontri positivi. All’Hospedal del Mar di Barcellona ad esempio, a 551 pazienti Covid è stato somministrato il calcifediolo, farmaco a base di vitamina D. Di quel gruppo di persone ricoverate, solo in 30 sono finite  in terapia intensiva. La conclusione delle ricerca è stata chiara: l’uso di farmaci del genere ha impedito l’aggravamento delle condizioni di salute di molti pazienti. Cosa ha comportato tutto questo? In primo luogo un tasso minore di occupazione di posti letto in terapia intensiva. Circostanza confermata nei media spagnoli anche da José Manuel Quesada, medico dell’ospedale di Cordoba tra i più impegnati nella ricerca: “L’uso del calcifediolo – ha dichiarato – potrebbe diminuire le ospedalizzazioni dell’80%”.

Una cifra che, se confermata da altri riscontri, avrebbe l’aspetto di un’autentica manna per i sovraccaricati sistemi ospedalieri europei. Perché la vera guerra contro il Covid sta proprio nella necessità di alleggerire il più possibile la pressione sugli ospedali. In tal senso il ruolo della vitamina D potrebbe diventare fondamentale. Non è un caso che in Gran Bretagna già a novembre un protocollo del ministero della Sanità ha previsto la consegna gratuita di integratori di vitamina D ad almeno 2.7 milioni di persone. Un nutrito gruppo al cui interno sono compresi anziani e soggetti più deboli.

La lotta al Covid parte dalle cure a domicilio

In Italia al momento non sono previste specifiche misure sulla vitamina D. Soltanto la Regione Piemonte si è mossa in tal senso. Il 6 marzo è stato infatti modificato il protocollo per la presa a carico a domicilio dei pazienti Covid effettuata dalle Unità Speciali di Continuità Assistenziale (Usca). Al suo interno è stato previsto anche l’uso di integratori e farmaci a base di vitamina D: “Siamo convinti, perché lo abbiamo riscontrato sul campo fin dalla prima ondata, che in molti casi il virus si possa combattere molto efficacemente curando i pazienti a casa – si legge nella nota dell’assessore alla Sanità della Regione Piemonte, Luigi Genesio Icardi –  Non vuol dire limitarsi a prescrivere paracetamolo per telefono e restare in vigile attesa, ma prendere in carico i pazienti a domicilio”.

La vera sfida per il contrasto all’attuale emergenza sanitaria, sta quindi nel prevenire le ospedalizzazioni e contrastare il virus quando ancora le infiammazioni non hanno provocato l’insorgenza di gravi patologie. L’implementazione dell’uso della vitamina D andrebbe in questa direzione. L’esempio piemontese è però attualmente l’unico in Italia. Elemento che pone il nostro Paese in ritardo sulle cure domiciliari. Eppure, anche ad emergenza finita, l’argomento potrebbe essere essenziale per il futuro della sanità: “L’emergenza coronavirus – ha infatti commentato su InsideOver lo studioso Pierluigi Fagan – ha fatto notare l’importanza di virare verso una sanità di prossimità, in grado di essere più radicata sul territorio e non intervenire soltanto nella fase di ospedalizzazione”.