Ministeri assediati, lanci di pietre e molotov, slogan contro la classe politica corrotta risuonano nell’aria di una Beirut che non ha più nulla da perdere. A innescare le nuove proteste è stata l’esplosione che il 4 agosto ha distrutto il porto e le zone limitrofe a causa dalla negligenza dei politici libanesi e da quelle divisioni settarie nella gestione del potere contro cui la popolazione del Paese dei cedri manifesta da quasi un anno.
Le proteste
Le manifestazioni in Libano sono iniziate a ottobre del 2019 per chiedere la rimozione della classe politica dirigente, il superamento del sistema settario e l’indipendenza del Paese dall’influenza più o meno diretta di Stati terzi, oltre a riforme sociali ed economiche che aiutassero il Libano a superare un periodo particolarmente critico. Le proteste avevano costretto il premier Saad Hariri a dimettersi, ma le speranze della popolazione circa un reale rinnovo della politica si sono ben presto rivelate vane. Dopo mesi di incertezza e di instabilità, il ruolo di primo ministro è stato affidato a Hassan Diab, ex ministro delle Comunicazioni con forti legami con l’Iran e ben lontano dal leader indipendente richiesto a gran voce dai manifestanti. Le proteste erano quindi continuate e – salvo alcuni casi – la popolazione era rimasta unita sotto gli stessi slogan e le stesse richieste, al di là delle divisioni settarie e confessionali tipiche del Libano. La crisi dettata dal coronavirus e l’incapacità del Governo di trovare una soluzione ai problemi finanziari ed economici del Paese ha esasperato ulteriormente la situazione, costringendo le persone a tornare in piazza. Ma a segnare il punto di non ritorno è stata l’esplosione del porto di Beirut, la distruzione degli edifici circostanti e la morte di più di 100 persone. La popolazione si è riversata per le strade della capitale chiedendo a gran voce la rimozione della classe politica, dal presidente al premier fino alle figure meno rilevanti del Governo, tutti ugualmente responsabili per quanto accaduto. Questa volta però le proteste non sono state del tutto pacifiche: i manifestanti sono riusciti ad assediare il ministero degli Esteri, dell’Economia, dell’Ambiente e dell’Energia, lanciando pietre e molotov contro le forze dell’ordine che hanno risposto a loro volta con il lancio di lacrimogeni nel tentativo di disperdere la folla.
La crisi politica
La rabbia dei manifestanti, come era prevedibile, si è diretta contro tutti i partiti libanesi e le più alte cariche politiche. I nomi che risuonavano maggiormente nella piazza erano quelli del premier Diab, del presidente Aoun e del leader di Hezbollah Nasrallah, ma non solo. La classe politica libanese in realtà è in bilico già da un anno e la crisi economica ha ulteriormente rafforzato le richieste di riforme e cambiamenti ai vertici da parte di una popolazione ormai stremata. L’incidente del 4 agosto si è quindi inserito in un contesto già particolarmente delicato, confermando la corruzione e l’inadeguatezza della classe politica e dando nuova linfa alle proteste. A complicare il quadro vi è poi la sentenza attesa per il 18 agosto sull’omicidio dell’ex premier Rafik Hariri, ucciso nel 2005 a seguito di un attentato: gli imputati sono quattro esponenti di Hezbollah e la loro condanna o assoluzione avranno effetti non trascurabili sul panorama politico e sociale libanese.
Intanto il premier Diab, nel tentativo di pacificare la popolazione e mettere fine a una crisi politica che non trova ancora soluzione, ha annunciato che lunedì 10 agosto proporrà di far tornare il Libano alle urne. “Non è possibile uscire dalla crisi strutturale del Paese se non tramite elezioni anticipate che diano vita a una nuova classe politica”, ha affermato il primo ministro durante una conferenza stampa. La prospettiva delineata dal premier però risulta alquanto utopistica: perché si arrivi ad un vero cambiamento ai vertici del Paese è prima di tutto necessaria una riforma del sistema elettorale e il superamento della divisione del potere su base settaria, come richiesto dagli stessi manifestanti, ma nessun partito ha ancora affrontato questo argomento. A quasi un anno dall’inizio delle proteste un nuovo Libano è ancora un sogno lontano, ma sempre più necessario per evitare il collasso di un Paese un tempo noto come la “Svizzera del Medio Oriente”.