Tutto è iniziato lo scorso 20 gennaio, quando una donna cinese proveniente da Wuhan è stata isolata all’aeroporto internazionale di Incheon, in Corea del Sud. La viaggiatrice accusava febbre, problemi respiratori e altri sintomi influenzali. I controlli sono scattati subito. Secca la diagnosi delle autorità sanitarie: è il primo caso di infezione dal nuovo coronavirus in terra sudcoreana.
La paziente è stata subito ricoverata e sottoposta a trattamenti sanitari mentre il governo si è immediatamente attivato attuando misure d’emergenza. Nelle quattro settimane successive sembrava che Seul fosse riuscita a evitare la nascita di un focolaio. In questo lasso di tempo soltanto 30 persone erano risultate positive al Covid-19. Gli occhi del mondo erano puntati altrove. In Cina, dove nella provincia dello Hubei gli ospedali traboccavano di malati, e in Giappone, alle prese con i contagi a bordo della nave Diamond Princess.
Il paziente 31
La situazione precipita la scoperta del “paziente 31“. Il 6 febbraio una 61enne viene coinvolta in un piccolo incidente stradale a Daegu, quarta città della Corea del Sud per numero di abitanti e situata a quasi 250 chilometri a sud-est di Seul. La signora viene trasferita in un ospedale di medicina orientale, il Saeronan Oriental Medicine Hospital.
Durante la sua degenza, la donna, membro della Chiesa di Gesù Shincheonji, uno dei culti religiosi più diffusi nel Paese, ha assistito per due volte alle funzioni della setta della quale faceva parte: una prima volta il 9 febbraio, poi il 16 dello stesso mese. Da una prima ricostruzione, tra una visita e l’altra, pare che i medici dell’ospedale le avessero suggerito invano di sottoporsi al test per il coronavirus. Le condizioni della signora, infatti, non destavano preoccupazione per l’incidente, quanto per una febbre sospetta che continuava a salire in modo inspiegabile.
La paziente, intanto, decide di andare in un hotel per prender parte a un buffet, insieme a un amico. Nel frattempo i sintomi peggiorano e il 17 febbraio la sudcoreana si reca in un altro ospedale per sottoporsi finalmente al test. Dopo 24 ore arriva il responso: coronavirus. Nel giro di pochi giorni il numero dei pazienti positivi al Covid-19 sale alle stelle. Centinaia di fedeli della chiesa di Shincheonji di Daegu risultano positivi.
La setta Shincheonji
Per capire perché i contagi si sono moltiplicati in maniera esponenziale bisogna fare luce sul Shincheonji. Si tratta di una delle sette più note all’interno della Corea del Sud. Può contare su un numero imprecisato di fedeli chiamati a rispettare ferrei vincoli di segretezza (le stime vanno dai 250mila ai 500mila) oltre a una rete di 1.100 tra chiese e luoghi di culto.
Alle sedi sparse in tutto il Paese bisogna poi aggiungere anche diversi centri operativi attivi all’estero, tra cui uno a Wuhan, epicentro cinese dell’epidemia di coronavirus. La setta è stata fondata 36 anni fa da Lee Man Hee, un 88enne che crede di essere una specie di secondo Gesù e che i seguaci adorano come se davvero fosse il nuovo Messia.
Le pratiche della chiesa agevolano a dismisura la diffusione del Covid-19, visto che i fedeli sono chiamati a partecipare a lunghe messe in cui le persone si ritrovano a stretto contatto l’una con l’altra. Il tutto, come detto, in un vincolo di segretezza. In altre parole, chi fa parte del culto non dice di farne parte.
Il virus si espande
Torniamo al paziente 31. La signora ha partecipato a due messe a Daegu: la mattina del 9 febbraio alle 7.30 e il 16, poco prima di essere ricoverata nel nuovo centro sanitario. Le autorità sudcoreane sono risalite all’elenco dei fedeli che hanno partecipato ai servizi della Chiesa di Shincheonji. Si tratta di 9.300 soggetti, 1.200 dei quali hanno accusato sintomi simil influenzali. Questo è il primo cluster di contagi collegato al culto segreto.
Il secondo grande gruppo è emerso in un vicino ospedale di Cheongdo, una contea a una trentina di chilometri da Degu. Le autorità ritengono verosimile un collegamento tra Shincheonji e un servizio funebre tenuto in quell’ospedale a cui ha partecipato un certo numero di membri della chiesa, tra cui la paziente 31. Un funerale, tra l’altro, andato in scena dal 31 gennaio al 2 febbraio e in cui si commemorava niente meno che il fratello del leader della setta.
Qui entra in gioco ancora una volta la paziente 31: il 29 gennaio, prima del funerale, si scopre che la signora ha visitato il C-Club di Gangam, uno dei quartieri più rinomati della capitale Seul (secondo i media sudcoreani quel luogo sarebbe collegato proprio alla chiesa Shincheonji). Morale della favola: si stima che il 60% (inizialmente l’80%) dei casi di coronavirus della Corea del Sud siano collocati tra Daegu e Cheongdo.
Il signor Lee nell’occhio del ciclone
La rabbia del popolo coreano è ricaduta sul fondatore del Shincheonji. Se, come sottolinea il New York Times, per i suoi seguaci Lee Man Hee è il “discendente degli antichi re che governarono la Corea secoli fa”, nonché “l’angelo che Gesù ha inviato per salvare l’umanità” e “l’unico e solo essere capace di interpretare i simboli e i codici segreti nascosti nel libro dell’Apocalisse della Bibbia”, per i politici di Seul questo ambiguo 88enne non è altro che il leader di un culto religioso che sta contrastando gli sforzi del governo impegnato ad arginare l’epidemia del Covid-19.
Le principali città del Paese, tra cui Seul, hanno chiesto ai pubblici ministeri di aprire un indagine su Lee per potenziali accuse penali, tra cui “omicidio per negligenza intenzionale”. Ma la colpa più grave, anche da un punto di vista morale, è un’altra: la chiesa è accusata di aver nascosto i nomi di alcuni membri mentre le autorità cercavano di rintracciarli prima che il virus si diffondesse in tutta la nazione.
Secondo quanto riportato dall’agenzia Yonap, il governo sudcoreano ha annunciato lo stanziamento di oltre 9,8 miliardi di dollari per combattere l’epidemia e mitigare le ricadute economiche. Il 2 marzo il signor Lee si è scusato pubblicamente per quanto accaduto: “Questa non era la nostra intenzione. Molte persone si sono infettate – ha detto in una conferenza stampa – faremo del nostro meglio per sostenere con tutte le nostre risorse le misure del governo tese a controllare il virus”. Ma ormai è troppo tardi: il vaso di Pandora è stato scoperchiato.
Scuse inutili
Pochi giorni dopo essersi scusato per il disagio creato al popolo sudcoreano in merito alla diffusione del coronavirus nel Paese, il signor Lee mantiene le sue promesse. Community Chest of Korea, un’organizzazione no profit della filiale di Daegu, comunica di avere ricevuto 10 milioni di euro dal conto di Shincheonji. Ma in questo momento al governo sudcoreano non servono tanto donazioni economiche, quanto un’esplicita forma di collaborazione.
E così il sindaco di Daegu, oltre a rifiutare l’offerta, sollecita i vertici della chiesa a condividere la lista dei membri della setta. Come hanno fatto notare molti media locali, infatti, alcuni di loro, pur risultati positivi ai test, non sono stati ricoverati. Molti altri hanno rifiutato (e rifiutano) addirittura di essere controllati per motivi di educazione religiosa. Il segretario del Partito Minju nonché ex primo ministro della Corea del Sud, Lee Nak Yon, ha invitato il signor Lee a donare la sede della chiesa, ormai vuota, così da poterla trasformare in un centro di accoglienza per i pazienti infetti di Daegu, città ormai satura.
La chiusura delle scuole
Mentre la politica è divisa in due schieramenti tra chi sottolinea l’importanza della libertà di religione nel Paese e chi punta il dito contro le modalità adottate dalla chiesa di Shincheonji, i cittadini sudcoreani affrontano come meglio possono la loro vita quotidiana al tempo del coronavirus.
Le scuole in Corea del Sud sono chiuse da un mese. Non per il coronavirus ma perché questo prevede l’ordinamento scolastico nazionale. Il semestre sudcoreano è così articolato per le scuole di tutti i gradi, università comprese: da marzo a metà luglio scatta il primo semestre, quindi c’è un mese di pausa ad agosto e dalla fine di agosto a metà dicembre va in scena il secondo semestre. Normalmente le lezioni riprendono per tutti il 2 marzo ma sono state appena prorogate. In un primo momento il ministero dell’Istruzione aveva stabilito di posticipare il day one di due settimane, poi ha fissato al 23 marzo la data di riapertura delle scuole.
Prima del nuovo anno scolastico, nella seconda o terza settimana di febbraio in Corea del Sud è tradizione festeggiare la chiusura di quello appena trascorso. Solitamente in questi giorni si celebrano anche le sessioni di laurea. Si tratta di una delle cerimonie più importanti nella vita di un cittadino sudcoreano e alla quale partecipa l’intera famiglia dello studente. A causa del coronavirus il governo ha tuttavia imposto il divieto assoluto di invitare parenti e genitori al tanto atteso appuntamento, scatenando enormi polemiche.
Panico a Seul
A Seul la situazione desta preoccupazione. L’allerta è massima e gli abitanti sono spaventati. Una signora, di mezza età, è in fila assieme a molte altre persone davanti a una delle farmacie della capitale. È disperata e ha intenzione di acquistare una mascherina: “Siamo qui dalle 5 di mattina perché hanno detto che avrebbero rifornito il negozio con mascherine nuove”.
Le mascherine protettive si usavano per lo più durante la stagione in cui nell’aria vi era un’alta concentrazione di Pm 2.5 ma adesso vanno letteralmente a ruba. Costano il corrispettivo di 3 euro e le scorte sembrano non essere mai sufficienti ad accontentare tutti. Sembra quasi di essere tornati al 1994, quando il rischio di un’imminente guerra con la Corea del Nord aveva spinto i sudcoreani a riversarsi in massa nei supermercati e fare scorte di riso e noodles.
I negozi hanno appeso sull’ingresso cartelli eloquenti che invitano a non entrare chi non indossa le mascherine. Questi messaggi sono ovunque e il ritornello è sempre lo stesso: “Non entrare senza mascherina protettiva”. Il coronavirus ha colpito con una certa durezza le attività di negozianti e ristoratori, rimasti a secco di clientela. C’è chi ha chiuso per precauzione e chi sarà costretto a farlo per mancanza di lavoro.
Gps contro il coronavirus
In questo periodo speciale esistono diversi servizi online che offrono aggiornamenti puntuali e tutte le notizie in tempo reale sull’andamento del Covid-19 nel territorio sudcoreano. La Corea del Sud è uno dei Paesi leader della tecnologia e sta cercando di sfruttare al meglio le sue capacità per arginare l’emergenza. Sono due i siti più utilizzati dai sudcoreani.
Il primo è Coronamap, una sorta di Google Map locale che mostra una mappa del Paese piena di pallini verdi, gialli o rossi. Quei cerchietti indicano i luoghi visitati da pazienti infetti, con tanto di data dell’avvenimento, nome e indirizzo della zona da evitare. Ogni colore corrisponde alla data della visita. Il cerchio verde sta a significare che lì, in quel luogo, dai 4 ai 9 giorni fa è transitato un cittadino positivo al Covid.19; il colore giallo abbraccia una fascia temporale ridotta che va dai 4 giorni alle 24 ore; il rosso è l’apoteosi del pericolo visto che qualcuno è passato di lì meno da meno di 24 ore.
L’altro servizio online è offerto dal ministero della Salute e del Benessere. In una apposita sezione c’è un lunghissimo elenco che raccoglie tutti i casi confermati di sudcoreani contagiati organizzati in una tabella a sei colonne. La prima riporta in progressione il numero del paziente: ad esempio, dove c’è un 2, vuol dire che quei dati si riferiscono al secondo paziente registrato. La seconda offre ulteriori informazioni: il sesso, la nazionalità e l’anno di nascita del soggetto, quindi troviamo la modalità di contagio (ad esempio: “visita a Wuhan”), la data di conferma dell’infezione, il luogo di ricovero e il numero di persone che il paziente avrebbe incontrato dopo il contagio.
Il governo, nonostante i vincoli legati alla privacy delle persone, non ha intenzione di mettere in secondo piano gli interessi della società. Basti pensare che per ricostruire con la massima precisione i contatti e gli spostamenti dei contagiati, le autorità starebbero pensando perfino di iniziare ad analizzare i pagamenti i pagamenti cashless dei pazienti infetti.
In mezzo a tutto ciò sono state ideate da privati numerosissime applicazioni per smartphone e tablet dalle funzioni più disparate: ci sono quelle che avvisano quando ci troviamo a 100 metri di distanza da dove era stato un contagiato e quelle che mandano notifiche in merito agli spostamenti dei membri della Chiesa di Shincheonji. La più scaricata? Corona100m, scaricata da 1 milione di persone nella sola giornata del 23 febbraio.
La chiave della vittoria: l’organizzazione
A distanza di settimane il peggio sembra ormai alle spalle. Dopo settimane di fuoco il numero dei contagi è diminuito. I bollettini più recenti registrano un drastico calo dei contagi, addirittura al di sotto di quota 100. Le misure, qui in Corea del Sud, sono state rigide ma non ferree e draconiane come quelle cinesi.
Il punto di forza di Seul ha un nome ben preciso: organizzazione. Vediamo cosa è successo negli ultimi giorni. Con le nuove risorse messe sul tavolo dal governo, lo Stato ha rafforzato i controlli sanitari, da una parte aumentando il numero di tamponi giornalieri e dall’altro isolando quanti più pazienti possibili. L’obiettivo principale era quello di evitare il rischio di possibili trasmissioni di massa. Missione riuscita alla grande.
Tra le altre misure, Seul ha interrotto i concerti K-pop e ogni manifestazione pubblica, compreso lo sport. E ancora: scuole chiuse per tre settimane, funzioni religiose garantite solo online e obbligo per i cittadini di indossare una mascherina. Importantissimi e intelligenti sono stati i test sanitari di massa, realizzati mediante cliniche “drive-thru”.
Il funzionamento di questi test è semplice: i pazienti vengono controllati mentre si trovano nelle proprie auto, secondo un modello che rimanda vagamente alla catena di montaggio. Ogni volta gli addetti sanitari, bardati da tute e protetti da mascherine, circondano la vettura del soggetto da monitorare e controllano tanto la temperatura corporea quanto la difficoltà respiratoria del passeggero. In pochi minuti (mediamente 15′) la diagnosi è pronta. Senza alcun pugno duro, dal 20 gennaio al 10 marzo, la Corea del Sud ha effettuato almeno 140mila test. L’Italia prenda nota.