L’attuale epidemia da coronavirus ha riportato a galla in modo drammatico la convivenza tra l’uomo e i virus. Un rapporto onnipresente nella storia, ma al tempo stesso caratterizzato da un forte alone di mistero. La stessa scoperta dei virus è molto più recente di quanto non si possa pensare: solo nel XIX secolo si è iniziata ad ipotizzare la presenza di questi agenti patogeni, solo nel 1931 per la prima volta l’occhio umano ha potuto vederli grazie ai più moderni telescopi. Oggi sono state classificate almeno 5mila specie di virus, ma ne esisterebbero milioni. La sfida futura è renderli sempre meno misteriosi per prevenire nuove pandemie.

Il rapporto tra i virus e l’uomo nell’antichità

Di epidemie ne sono state registrate parecchie nel corso della storia. La letteratura è piena di racconti dove l’uomo è stato costretto a convivere con malattie in grado di diffondersi rapidamente soprattutto nei grandi centri urbani. E in grado, soprattutto, di influenzare il corso stesso degli eventi. L’Impero romano ad esempio, in uno dei momenti di sua massima espansione, per almeno un lustro ha dovuto convivere con quella che è passata alla storia come “peste antonina”. A causare l’epidemia sarebbe stato il virus del vaiolo, diffusosi durante le campagne militari di Lucio Vero contro i Parti. Quest’ultimo, morto nel 169 d.C. durante il picco della pandemia, potrebbe essere stato vittima del morbo.

Un’importante testimonianza di quegli anni è arrivata dal medico Claudio Galeno, il quale nei suoi scritti ha parlato di pazienti morti dopo giorni di febbre alta, tosse e vomito. Il virus del vaiolo avrebbe contribuito poi a un’altra svolta storica. Nel ‘500 il morbo portato dagli spagnoli nelle Americhe sarebbe stato responsabile infatti della decimazione delle popolazioni azteche. Importanti svolte nel contrasto alle pandemie sono arrivate da Venezia nel ‘400: qui per la prima volta si è sperimentata la quarantena per chi arrivava da fuori, così come è stato costruito il primo lazzaretto, luogo cioè in cui ospitare le persone contagiate in caso di epidemia.

La nascita della virologia moderna

Solo nel XIX secolo l’uomo è arrivato alla scoperta dell’esistenza dei virus. Nel 1892 il russo Dmitri Ivanovsky ha per la prima volta descritto un agente patogeno non batterico in grado di infettare le piante di tabacco. Pochi anni dopo l’olandese Martinus Willem Beijerinck ha classificato questa entità biologica come “virus del tabacco”, usando per la prima volta il termine con cui oggi chiamiamo queste particelle infettive. Da questo momento in poi la scienza ha iniziato a dedicarsi intensamente allo studio dei virus. È nata così la virologia moderna, branca della microbiologia.

Quando il mondo è caduto nel 1918 nel terrore dell’influenza spagnola, il mondo scientifico ha ulteriormente implementato le ricerche in questo settore. Del resto, la morte di milioni di persone nel giro di 18 mesi subito dopo la fine della prima guerra mondiale ha sconvolto l’intera popolazione globale. Un evento, quello della spagnola, in grado di ricordare anche all’uomo moderno la capacità di popolazioni di microorganismi infettivi di condizionare il corso della storia. E un’altra svolta nello studio dei virus si è avuta nel 1931, quando grazie ai nuovi microscopi elettronici gli ingegneri tedeschi Ernst Ruska e Max Knoll sono stati in grado di visionare per la prima volta le particelle virali. Da allora i virus sono stati un po’ meno misteriosi, ma non per questo meno letali.

Le pandemie recenti

Di pandemie ne è ricca anche la storia moderna. Nonostante i progressi del mondo della scienza, i virus hanno sempre colto di “sorpresa” l’uomo mettendolo in grande difficoltà. Ad “inaugurare” il ventesimo secolo è stata l’influenza Spagnola nel 2018, durante la prima guerra mondiale. I primi e numerosi casi di contagio furono registrati ad Haskell County, nel Kansas, nel gennaio di quell’anno. L’identificazione del virus venne fatta però un mese dopo in Spagna e, da qui, il nome “Spagnola”. Causata dal ceppo virale H1N1, l’influenza ha causato una strage con circa 100 milioni di morti nel mondo. Nel 1957 il mondo ha conosciuto l’influenza “Asiatica” il cui ceppo virale H2N2, è stato isolato per la prima volta in Cina. Circa 2 milioni le persone uccise dal virus. Pochi anni dopo, l’arrivo dell’influenza di “Hong Kong” che ha fatto un’analoga strage a quella causata dalla precedente pandemia. Un altro virus influenzale arrivato dall’oriente è quello della “Sars” nel 2003. Più di 800 persone uccise in un anno. Pochi anni dopo,  nel 2009, è stata la volta  del virus H1N1 determinato dal salto di specie dall’animale all’uomo dell’influenza suina. Nel giugno di quell’anno l’Oms ha dichiarato lo stato di pandemia con 144 morti e 28.774 persone contagiate. In autunno si aspettava la seconda ondata che, per fortuna, non è mai arrivata. Nel 2019 è arrivato il nuovo coronavirus, derivante dal ceppo virale Sars-CoV-2 e per il quale l’Oms ne ha dichiarato la pandemia l’11 marzo del 2020. Sono 1.192.644 i morti nel mondo contati fino ad ottobre.

La virologia e il salto di specie del virus

Il settore della virologia ha fatto passi da gigante da quando è stato scoperto il primo virus. “Il primo virus animale scoperto – racconta a  InsideOver il professor Giorgio Palù – è stato quello sul bovino e risale 1898. Si è trattato della cosiddetta malattia mani-bocca-piedi. Poi ci fu la scoperta del virus della febbre gialla nel 1901 a Cuba, durante la guerra ispano – americana. Successivamente – prosegue il virologo – la dimostrazione dei virus oncogeni e da qui la scoperta di tutti gli altri virus. La virologia fiorì in quel secolo ed è una delle discipline che ha visto assegnare ai virologi il maggior numero di premi Nobel per la medicina”. In presenza dell’attuale pandemia, una delle curiosità più frequenti è legata al meccanismo che genera il salto di specie del virus e, precisamente, quello dall’animale all’uomo.

“I virus più noti che abbiamo – ha spiegato ancora il professor Palù – come l’herpes simplex, sono di solito virus che si sono evoluti con l’essere umano. Noi siamo popolati da virus, non siamo sterili. Abbiamo virus che circolano nel sangue e che ogni tanto si riattivano, come il fuoco di Sant’Antonio. Questi virus – ha concluso il virologo – sono specie e tessuto specifici perché si sono adattati all’uomo e non infettano gli animali. Può accadere però in condizioni rare, che un virus responsabile di zoonosi, cioè che infetta l’animale, faccia il salto di specie e infetti anche l’uomo”.