Il giorno sul calendario da cerchiare con la matita rossa è stato lo scorso 31 ottobre. Il bollettino emesso nella stessa notte di Halloween, per la prima volta dal 9 giugno, non riportava alcun caso di contagio locale di Covid-19. Gli sforzi dell’Australia nella lotta contro il coronavirus avevano finalmente dato i loro frutti. Il primo novembre lo stato del Victoria, epicentro della seconda ondata australiana, registrava zero casi per il secondo giorno consecutivo dopo un blocco di 112 giorni.
“Grazie a tutti i nostri straordinari operatori sanitari e soprattutto al popolo australiano”, dichiarava su Twitter il ministro della Salute Greg Hunt. La favola di Canberra non è ancora finita e gli ultimi dati parlano chiaro: poche decine di infezioni quotidiane, praticamente tutte ricollegabili a positività provenienti dall’estero, e morti che si contano sulle dita di una mano. Dall’inizio dell’emergenza, includendo anche la prima ondata di marzo, in Australia ci sono stati meno di 30mila casi e poco più di 900 vittime. Numeri ottimi, che dimostrano come la risposta fornita dalle autorità locali sia stata efficiente e tempestiva. Come se non bastasse, anche nella fase peggiore, collocabile tra il luglio e il settembre scorsi, contagi e decessi non hanno mai superato soglie critiche.
Dove nasce il successo australiano
Per capire come ha fatto l’Australia a contenere con successo il virus bisogna partire dalla sua geografia. È una nazione molto grande (oltre 7,5 milioni di chilometri quadrati) abitata da poche persone (circa 25 milioni) e con una densità di popolazione pari a circa 3 abitanti per chilometro quadrato. Giusto per fare un confronto, l’Italia ha circa 206 abitanti per chilometri quadrato, una sessantina di milioni di abitanti e una superficie di oltre 300 chilometri quadrati. Insomma, le enormi dimensioni e la scarsissima densità abitativa hanno senza ombra di dubbio aiutato l’Australia. Che inoltre ha potuto giocare sul fatto di essere un’isola, un vantaggio non da poco che ha aiutato Canberra a blindare il Paese e sigillare i confini. Attenzione però: non basta essere un’isola per sconfiggere il Covid (basta dare uno sguardo alla Gran Bretagna, che oggi è travolta dal coronavirus).
Il modello australiano va oltre le semplici caratteristiche sopra citate. Canberra ha adottato un approccio tutto sommato tradizionale, alternando blocchi, test e tracciamento dei positivi. Il punto è che ha saputo metterlo in pratica meglio di altri, anche nelle grandi città del Paese, Melbourne e Canberra comprese. Lo stato del Victoria ha iniziato a riaprire a cavallo tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre dopo una serrata durata quasi quattro mesi. Da pochi giorni le persone possono liberamente lasciare le loro case e le attività di ristorazione riaprire, facendo attenzione a non ospitare gruppi formati da oltre 10 cittadini. Daniel Andrews, premier di Victoria, non può che essere soddisfatto del comportamento tenuto dai residenti. Le regole erano rigide ma la comunità ha risposto presente, con il risultato che lo stato – e probabilmente tutto il Paese – si trova adesso in una buona posizione per pensare di trascorrere un Natale quasi normale.
Facciamo un passo indietro. All’inizio di agosto il Victoria registrava centinaia di casi al giorno. Come ha sottolineato la Cnn, le autorità hanno subito attuato rigorose misure antiepidemiche, tra cui il blocco dei residenti di Melbourne per sette settimane e l’esclusione di quasi tutti gli spostamenti all’aperto non essenziali. Il governo federale ha anche chiuso i confini dello stato ai viaggi non necessari. Sebbene la decisione di bloccare Melbourne fosse impopolare, alla fine di settembre i casi sono scesi a cifre bassissime, consentendo al governo di revocare le restrizioni. A quanto pare attuare tempestivamente misure impopolari ed economicamente tragiche, senza tergiversare o perdere tempo, sembrerebbe essere utile. Anche perché più passano i giorni e più il virus si diffonde, costringendo i vari governi a prendere decisioni sempre più pesanti e per periodi sempre più lunghi. In altre parole, la lezione australiana ci insegna che è possibile abbattere la curva dei contagi con misure “dure” solo intervenendo all’istante.
Sopprimere e non eliminare
La strategia seguita dall’Australia procede verso una direzione ben precisa. L’obiettivo di Canberra non è quello di eliminare il virus ma di sopprimerlo, così da far crollare a zero i contagi quotidiani locali e prepararsi per eventuali infezioni provenienti dall’estero o da chissà dove. Gli esperti australiani, consapevoli che alcuni casi potrebbero verificarsi di nuovo e che le epidemie rimangono un rischio fino alla scoperta del vaccino, hanno chiamato questa strategia “soppressione aggressiva”.
L’epidemiologo James McCaw ha spiegato all’Abc che un modello volto all’eliminazione totale del coronavirus, mentre il virus imperversa in gran parte del mondo, è pressoché inutile. McCaw, consulente dell’Australian Health Protection Principal Committee, una sorta di Comitato tecnico scientifico locale, è stato chiaro: neppure un sistema di quarantena rigidissimo per chi entra nell’isola dall’estero garantisce la sicurezza al 100%. “Il sistema di quarantena dell’hotel, che dura 14 giorni, è la migliore pratica mondiale: circa il 99% delle persone non è più contagioso dopo quel periodo. Ma se abbiamo centinaia di migliaia di persone che entrano nel Paese, e ne abbiamo già avute oltre 100.000 attraverso il sistema di quarantena dell’hotel, l’1% rappresenta ancora un bel po’ di persone”, ha spiegato.
In sostanza, gli fa eco Meru Sheel, altro epidemiologo, senza un vaccino anti Covid la soppressione del virus rimane un approccio più realistico rispetto alla sua eliminazione. “La Nuova Zelanda, che stava per eliminare il virus, dopo pochi mesi ha visto spuntare nuovi casi”, ha fatto notare Sheel. I sostenitori dell’eliminazione sostengono che blocchi più severi a breve termine consentano periodi più lunghi di prosperità economica e restrizioni sociali più permissive. Alcuni scienziati australiani hanno tuttavia fatto notare che attraverso l’eliminazione si instaura un processo potenzialmente negativo per un Paese: si cerca di stroncare la trasmissione del virus nella comunità ma, una volta riaperto tutto, il problema dei contagi riappare punto e a capo.
La serrata nazionale dovrebbe dunque essere vista come una sorta di jolly fulmineo da usare in modo tale da prender tempo. Ma da sola non basta. Per evitare che il lockdown sia un sacrificio inutile è necessario che sia seguito da altri accorgimenti. Con una strategia di soppressione aggressiva, il professor McCaw sostiene che l’Australia dovrebbe aspettarsi di vedere, di tanto in tanto, piccoli cluster di coronavirus spuntare fino all’arrivo di un vaccino. “Ci aspettiamo di vederli o perché il virus è ancora in circolazione ed è difficile da rilevare, e occasionalmente divampa ,oppure perché lo eliminiamo per un certo periodo di tempo e poi ritorna”, ha aggiunto l’epidemiologo. Dunque, per ridurre al minimo la possibilità di nuovi cluster, tutti i cittadini, al termine dei blocchi, dovrebbero continuare a osservare le regole di distanziamento sociale. E lo Stato accompagnarli in questo percorso.
La doppia vittoria neozelandese
Sempre restando in Oceania vale la pena citare il caso della Nuova Zelanda. L’approccio adottato dal governo neozelandese guidato da Jacinda Ardern è molto simile a quello messo in campo dal’Australia. Wellington ha sconfitto entrambe le ondate di Covid affidandosi a tre pilastri ben precisi: una comunicazione ai cittadini semplice e lineare, un lockdown istantaneo, e una chiusura ermetica del Paese altrettanto immediata. A febbraio Ardern aveva bloccato tutti i viaggiatori cinesi mentre a metà marzo la Nuova Zelanda chiudeva le sue frontiere ai non residenti.
Non solo: a migliorare la rete sanitaria neozelandese c’erano rigide quarantene da scontare lungo i confini per i rari viaggiatori provenienti dall’estero, tamponi a tappeto e tracciabilità dei contatti dei pazienti positivi. Il 23 marzo è scattato il lockdown totale per un mese, in seguito prolungato di un’altra settimana. I risultati sono stati ottimi e il virus sconfitto. Tuttavia, a conferma di quanto spiegato dagli esperti australiani in merito alla differenza tra la soppressione e l’eliminazione, dopo 102 giorni, ecco rispuntare un nuovo caso. È il preludio a una sorta di seconda ondata, che Ardern ha affrontato a viso aperto senza perdere un istante.
Durante la seconda ondata gli interventi sono stati più soft e mirati ma comunque efficienti. In piena estate, ad agosto, la Nuova Zelanda ha scelto di attuare per quasi una settimana, misure restrittive, comprendenti pesanti restrizioni alla libertà di movimento ad Auckland, città colpita dai nuovi contagi, e limitazioni agli spostamenti nel resto del Paese. Sono stati giorni complessi, (garantite solo uscite per motivi indispensabili e chiusura delle attività commerciali non essenziali, inclusi ristoranti e bar) ma alla fine Ardern ha esultato di nuovo. Passando dal desiderio di eliminare il virus a quello di volerlo sopprimere, i neozelandesi sono riusciti ad affinare ulteriormente una strategia più che invidiabile.