Sta diventando un’abitudine: Johnson & Johnson ha annunciato che non potrà garantire la consegna di 55 milioni di dosi del suo vaccino contro il coronavirus nel secondo trimestre dell’anno che erano destinate all’Unione Europea. La multinazionale a stelle e strisce, produttrice del vaccino monodose che appare a molti un “game-changer” per la lotta alla pandemia, si era impegnata a fornire oltre 200 milioni di dosi ai Paesi del Vecchio Continente, il cui ricevimento è considerato vitale per accelerare prima dell’estate i piani di immunizzazione di massa. Tanto che forse proprio confidando in Johnson & Johnson il ministro della Salute Roberto Speranza si è esposto ieri sulla possibilità di finire al più presto la campagna.
Si nota un tempismo quantomeno sospetto tra la recente autorizzazione della Food & Drug Administration (Fda) statunitense a Johnson & Johnson, l’impegno di fronte all’amministrazione Biden da parte dell’azienda a garantire la produzione di 100 milioni di dosi negli Usa entro giugno, di cui 20 milioni entro la fine di marzo, e il ventilato rinvio delle consegne all’Ue. Segno che con ogni probabilità anche nel caso di questo vaccino la clausola nazionale stia prendendo il sopravvento.
I Paesi “pragmatici” e capaci di utilizzare le categorie dell’interesse nazionale e una sagacia politica e commerciale per favorire l’approvvigionamento dei vaccini (Usa, Israele e Regno Unito sono i capofila, ma si segnalano anche battitori liberi come Cile, Serbia e Marocco) procedono a passo di carica sulla campagna vaccinale. L’Unione europea, che ha firmato grandi accordi-quadro con le multinazionali farmaceutiche per un numero di dosi superiori al miliardo senza dotarsi fino in fondo degli strumenti di controllo e vigilanza su produzione, logistica e fornitura, ha più volte arrancato.
La sconfessione dell’accordo da parte del gruppo statunitense non è la prima per l’Unione. A gennaio Pfizer aveva annunciato il dimezzamento delle forniture a diversi Paesi, Italia compresa, scatenando la corsa all’acquisizione autonoma guidata dalla Germania, che ha aggirato i protocolli comunitari rifornendosi in autonomia. Allora la causa fu l’aumento della domanda negli Usa e la “clausola preferenziale” per il Paese di origine delle compagnie che le amministrazioni Trump e Biden hanno incassato dai produttori di vaccini americani. Secondo quanto riportato dal Fatto Quotidiano e approfondito su queste colonne, sul fronte Pfizer come causa del differente trattamento di riguardo si potrebbero aggiungere anche le questioni connesse al prezzo che ogni governo sta pagando per ricevere i vaccini dalle singole case farmaceutiche. Decisamente inferiore per l’Ue rispetto a Usa e Israele.
Stesso discorso per Moderna: l’Ue aveva stipulato un contratto per la fornitura di 160 milioni di dosi, ma a febbraio la quota di circa 500mila dosi la settimana è stata mancata di circa il 50%. Il tutto mentre il colosso del Massachusetts manteneva intatti i piani per consegnare al governo federale un numero di dosi tale da mantenere la tabella di marcia verso le 300 milioni di dosi: cento milioni entro la fine di marzo, altri cento milioni entro maggio e gli ultimi cento milioni entro luglio.
“Regina” dei ritardi è stata la compagnia anglo-svedese AstraZeneca. A febbraio il colosso farmaceutico ha annunciato che tra aprile e giugno consegnerà all’Ue solo 90 milioni di dosi rispetto alle 180 previste, e proprio nell’ultima settimana dello stesso mese ha imposto un taglio unilaterale del 15% delle forniture che ha spinto il governo italiano di Mario Draghi a bloccare l’export verso l’Australia di un lotto di vaccini del gruppo infialati ad Anagni. Se il buongiorno si vede dal mattino, ciò era perfettamente in linea con le notizie di inizio anno, quando AstraZeneca aveva annunciato di aver decurtato del 60%, da 80 a 31 milioni di dosi, la quantità prevista per la spedizione ai Paesi dell’Ue nel primo trimestre dell’anno, adducendo come causa “problemi di produzione”. In realtà, come ha notato il Deutsche Welle, la quota britannica non è stata toccata dalle decurtazioni.
Insomma, l’Unione Europea ha giocato con grande ingenuità la partita delle forniture di vaccini. Gli accordi sono solo pezzi di carta finché non vedono applicazione concreta e nel contesto di partite sanitarie e geopolitiche così importanti come quella per i vaccini contro il Covid affidarsi alle sole regole del mercato è in prospettiva autolesionista. Tanto che i primi a ben guardarsi dal farlo sono stati i Paesi paladini del libero commercio, Usa e Regno Unito. Con ritardo l’Unione Europea ha capito che bisogna porre in essere una strategia industriale per internalizzare le filiere produttive e frenare l’uscita di dosi oltre i confini del Vecchio Continente. Ma su scala globale continua a venir trattata come una Cenerentola: lo schiaffo di Johnson & Johnson è solo l’ultimo di una lunga serie. Attestazione di una pericolosa ingenuità che ritarda la guarigione dal virus del continente che ne ha maggiormente sofferto.