Gli iraniani hanno accolto la notizia della morte del generale Qasem Soleimani con più indifferenza di quello che può sembrare dalle immagini dell’imponente funerale di Stato. La maggior parte della gente ha seguito le notizie dalla tv e più che altro era preoccupata che, dopo la rappresaglia iraniana, gli Stati Uniti potessero decidere di attaccare l’Iran. Non che gli iraniani amino particolarmente il presidente americano Donald Trump e le sue politiche, ma non amano troppo, in molti casi, quelle della Repubblica islamica. Non può essere l’uccisione del generale Soleimani a far dimenticare che nel mese di novembre sono scoppiate sommosse e proteste in tutto il paese. Proteste portate avanti dai più poveri. Persone che fino a poco tempo fa erano lo zoccolo duro del sostegno di un regime che oggi i sondaggi ritengono essere sempre meno amato dalla popolazione.
Le forze dell’ordine hanno risposto in modo feroce alle proteste, uccidendo secondo molte fonti più di cento persone. Sia le sinistre che i vecchi sostenitori dello Shah, fino alle le minoranze azere, curde e arabe o i sufi e altri gruppi sciiti che si oppongono alla centralizzazione dell’interpretazione del Corano fatta dalla Repubblica Islamica, hanno tutti avuto attivisti uccisi dal governo. Lo strato più povero e spesso conservatore, che invece era la base su cui si poggiava il potere del sistema teocratico, ancora non aveva provato sulla sue pelle la repressione della Repubblica Islamica. Ora anche esso ha i suoi morti.
Le proteste erano partite a causa del forte rincaro del prezzo della benzina e della diminuzione dei litri che ogni iraniano può acquistare a prezzo calmierato. Una delle critiche che spesso si sentivano negli ultimi anni era che in piena crisi e sotto le sanzioni, il governo iraniano sprecava soldi per guerre in Iraq, Siria, Yemen e per rafforzare Hezbollah in Libano. Il generale Soleimani era proprio il perno centrale di questa politica che, se da un lato solleticava il nazionalismo iraniano, dall’altro era soggetta a molte critiche per le enormi quantità di risorse che dirottava fuori da un paese già in ginocchio. Inoltre, se è vero che Soleimani era stimato da molti per la sua capacità di combattere l’Isis, mandando al contrario degli occidentali, uomini sul terreno, era però poco amato dagli iraniani che si oppongono al regime per la sua volontà di esportare l’ideologia khomeinista nei paesi confinanti.
Certo, le sue vittorie hanno solleticato il nazionalismo iraniano e hanno generato sentimenti di simpatia o quanto meno di rispetto in molti – anche tra chi non si è mai considerato un sostenitori dell’espansione di Teheran. Ma questo non cambia la generale disistima che moltissimi iraniani nutrono verso gli ayatollah. Nemmeno la forte antipatia per Trump e la sua decisione di uscire dall’accordo sul nucleare o la sua politica di uccisione mirata dei nemici riescono a trasformare l’opinione degli iraniani sul regime.
La preoccupazione, chiaramente, è tanta. Le classi più borghesi si sono chiuse in una bolla. Per paura della violenza della repressione o di una guerra con gli Stati Uniti, vivono rinchiudendosi nel proprio mondo. Non protestano formalmente, ma nella vita privata infrangono tutte le leggi. I ricchi, pur essendo in gran parte laici e contro il regime, più che rischiare la vita preferiscono vivere in una bolla, emigrare o almeno investire all’estero per farsi un doppio passaporto. I più poveri, che invece non hanno più nulla da perdere, ultimamente sono scesi in piazza e scioperano anche a costo di finire in carcere o morire. Fino ad ora la forza dei governi era quella di vedere scendere in piazza gli studenti di sinistra ma non le classi meno abbienti. Ma se i due fronti si dovessero unire, per la Repubblica islamica sarebbe davvero difficile gestire la situazione.
Anche le manifestazioni oceaniche mostrate dalla tv a molti sono apparse abbastanza pilotate. Basta vedere l’abbigliamento delle donne nei loro chador neri per rendersi conto che la maggioranza del paese non era lì. Inoltre, in un Pasese dove gli impiegati pubblici sono milioni, è evidente che basta chiudere gli uffici e le scuole per capire chi non partecipa e perché. Anche la gestione del funerale a Kerman, terra natale di Soleimani e in cui è molto amato, dove sono morte decine di persone schiacciate dalla folla che premeva intorno al feretro, ha lasciato molte persone perplesse. Molti a Teheran ironizzavano addirittura sull’accaduto sostenendo che se il regime non era capace di gestire un funerale, figuriamoci una guerra contro gli americani. Lo stesso vale per l’incidente che ha causato la morte di tutti i passeggeri del volo dell’Ucraina International Airlines.
La maggior parte degli iraniani non ha creduto da subito alla versione del governo che fosse un incidente ed erano convinti che fosse stato il regime a colpirlo per errore. La sovrapposizione tra la rappresaglia iraniana in Iraq, con l’attacco alla base americana e l’incidente non aveva lasciato molti dubbi tra la gente. Infatti, alla fine lo stesso regime ha finito per ammetterlo. Anche questo incidente ha dato la sensazione che il paese sia piuttosto disorganizzato e debole in questo momento. Sui social network, le famiglie e gli amici si sono divisi e spesso hanno litigato sulla sorte del generale Soleimani o sull’incidente aereo, il che dimostra che le crepe nell’unità iraniana esistono.
La strada che gli ayatollah hanno di fronte si fa sempre più stretta. Proprio per questo la risposta contro gli Stati Uniti è stata più che altro “teatrale”, probabilmente non hanno voluto attaccare in modo frontale gli americani perché consapevoli di non poter affrontare una guerra. Certo anche Trump, visto la debole risposta iraniana, non ha voluto contrattaccare consapevole che una guerra contro l’Iran, pur indebolito, sarebbe comunque più complessa di quello che dice su Twitter, sopratutto in un anno elettorale. L’esercito iraniano e le forze dei Pasdaran sono perfettamente in grado di resistere, l’Iran è un Paese ben fortificato e gli iraniani non sono persone che accetterebbero un conflitto. Se nel breve tempo sembra quindi che la propaganda iraniana e i tweet di Trump siano stati più che altro teatrali e un modo per prendere le misure reciproche, nel lungo termine la questione si fa molto più problematica.
Le autorità stremate dalle sanzioni e dal malcontento popolare appaiono deboli. Molti pensano ormai che sia del tutto irriformabile e la proverbiale capacità degli ayatollah di trovare soluzioni politiche flessibili alle esigenze del momento sembra essere in crisi. Di fronte a tutto ciò, una parte dei vertici politici e militari potrebbe essere tentata di trasformare il paese in una potenza nucleare, sapendo che in questo caso nessuno lo attaccherebbe. Ma a chi guarda all'”esempio coreano”, si contrappone una gran parte del governo e delle forze politiche della Repubblica che non vuole una guerra, vuole raggiungere un accordo e sa benissimo che la coalizione formata dagli Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita non aspetta altro che trovare il minimo segnale per scatenare un attacco al cuore di Teheran. Proprio per questo è probabile che ci siano divisioni in seno agli ayatollah sulla strada da percorrere. La via per un nuovo accordo con gli americani sembra molto in salita, anche se Trump è spesso imprevedibile. Inoltre, bisogna aspettare e vedere chi vincerà le prossime elezioni negli Stati Uniti. Certo, anche di fronte alla nuova ondata di sanzioni appena annunciata da Trump, il regime si trova sempre più in difficoltà. Mentre solo il tempo dirà se alla alla fine prevarranno gli iraniani borghesi che vivono estraniati in una metaforica bolla, in attesa che tutto passi o qualcosa accada, o la rabbia degli studenti e dei più poveri che non hanno più nulla da perdere.