Un check-point militare, in Ciad, sull’asse che conduce da Bol, il principale centro rivierasco sulle rive del Lago Ciad, a N’Djamena, la capitale del Paese africano. Un ufficiale dell’esercito regolare ciadiano, di origine saheliana, si affaccia al finestrino del fuoristrada, chiede documenti, accrediti giornalistici e pretende spiegazioni sul perché noi, giornalisti occidentali, stiamo percorrendo uno dei tratti più insicuri del Paese. Il fixer, ciadiano pure lui ma, a differenza del militare, discendente da gruppi etnici di origine sub-sahariana, prova a dare subito una spiegazione. Immediato, perentorio e dispregiativo il soldato però zittisce il giornalista locale: ”Taci negro! Non sto parlando con te!”.

È successo un anno e mezzo fa, durante la realizzazione del reportage per InsideOver sulla crisi umanitaria nel bacino del Lago Ciad. Dapprima un episodio difficile da elaborare, poi un conto in sospeso affastellato nel coacervo delle lordure testimoniate e adesso invece un ricordo riaffiorato con prepotenza in questi giorni in cui la questione del razzismo è tornata ad occupare le prime pagine dei quotidiani nazionali e internazionali.

Il ricordo di quanto successo in Ciad è riemerso in seguito alla lettura dell’intervista rilasciata da Aminata Kida, un’ imprenditrice e attivista di origine maliana che vive a Roma da quando era una bambina, alla rivista Africa. La donna, in occasione delle manifestazioni di protesta esplose dopo l’uccisione di Georges Floyd e la nascita del movimento internazionale #backlivesismatter ha pubblicato su facebook un post che, oltre ad aver suscitato un acceso dibattito, ha anche svelato uno scenario poco conosciuto sulla geografia dei razzismi internazionali: «Secondo me è giunto il momento che anche in Africa si scenda in piazza contro il razzismo dei neri contro i neri! Basta guerre etniche! Basta impedimento di matrimoni solo perché uno viene da un etnia diversa!». Questo è stato il post pubblicato dalla donna che, nella sua essenza, oltre ad aver rievocato l’ignobiltà del checkpoint in Ciad, ha rivelato soprattutto come l’odio su base etnica non sia un fenomeno ascrivibile unicamente al rapporto tra ”bianchi” e ”neri”, ma sia invece presente anche all’interno dello stesso continente africano.

Episodi tragici, ormai consegnati alla storiografia, capaci di spiegare il dramma del razzismo in Africa e darne un’immediata comprensione non mancano; il genocidio del Ruanda ne è uno dei casi più eclatanti. Per evitare però che il problema del razzismo nel continente africano possa venire circoscritto unicamente a eventi tragici e assoluti è bene proseguire, come punto di partenza dell’analisi del problema, nel leggere il contenuto dell’intervista rilasciata da Aminata Kida alla giornalista Stefania Ragusa. ”Quando si tratta di denunciare il razzismo dei bianchi contro i neri ci si unisce, arrivando a includere nel segmento “nero” persone che nere non sono e che non si riconoscono come tali. Poi però si glissa sulle forme di esclusione e discriminazione che ci sono in Africa”. Sono state queste le parole con cui la donna maliana ha iniziato la sua intervista proseguendo poi con il fare esempi concreti: “In Sudafrica c’è un’ intolleranza sempre maggiore nei confronti dei nuovi immigrati, in Mauritania persiste la schiavitù nei confronti degli africani sub-sahariani e anche lo scontro tra Dogon e Peul, nel nord del Mali, ha una componente etnica molto forte”. La parte conclusiva è poi quella che colpisce maggiormente perchè aggredisce schematismi prestabiliti e con un senso critico, controcorrente rispetto al senso comune, introduce il lettore a un’analisi più complessa ed eterogenea della questione. “È più facile combattere il razzismo dei bianchi contro i neri perché rappresenta qualcosa di esterno”, ha spiegato l’attivista maliana che poi ha aggiunto: “Rivolgere questo spirito critico all’ interno invece richiede un grande sforzo ma se vogliamo essere coerenti e andare oltre gli slogan, è arrivato il momento di rompere il silenzio. Dobbiamo smettere di dire che è tutta colpa dell’Occidente, non per una questione di gentilezza, bensì per essere più efficaci nella risoluzione dei problemi. E il problema che abbiamo oggi in Africa non è Floyd ma lo scontro tribale”.

Sono parole, quelle di Aminata Kinda, che provocano vertigini perchè aprono lo sguardo e la conoscenza su un aspetto estremamente brutale della nostra contemporaneità ma troppo spesso trascurato e ignorato: il razzismo anche tra chi è vittima stessa del suprematismo e della discriminazione. E in momenti in cui la questione dello sfregio o dell’abuso sociale in virtù del colore della pelle o della propria origine è quanto mai sentita e discussa dall’opinione pubblica, è necessario affrontare il tema in modo approfondito e onnicomprensivo per evitare d’inciampare nel paradosso dell’ antidiscriminazione che discrimina le discriminazioni.

A pochi giorni dalla nascita del movimento #blacklivesismetter Najma Fiyasko Finnbogadòttir fondatrice della piattaforma Mid-Show, un portale che raccoglie interventi di attiviste somale impegnate in questioni legate alla giustizia sociale e ai diritti umani, dapprima, attraverso un video si è congratulata con tutti i somali che hanno aderito alle proteste per l’assassinio di Georgers Floyd poi però ha lanciato immediatamente un appello affinchè venga posta l’attenzione anche sulle discriminazioni che subiscono i somali bantu nel loro stesso Paese: «Noi siamo neri, loro sono neri. Mi dite dov’è la differenza? Black Lives Matter deve valere anche in Somalia». Denunciando l’emarginazione e la discriminazione di cui sono vittime i somali bantu, il gruppo etnico minoritario del Paese discriminato da generazioni, l’attivista somala, per prima, in questi giorni di mobilitazioni, ha chiesto che non venisse ignorato il problema del razzismo all’interno dello stesso continente africano. Un intervento che ha ricordato quanto fatto dalla fotografa marocchina Leila Aloui, morta tragicamente nel 2016 nell’attentato a Ouagadougou, che lo stesso anno realizzò uno spot per denunciare il razzismo da parte dei nordafricani nei confronti delle gente dell’Africa equatoriale. E il problema dell’odio etnico in nord Africa non interessa solo il Marocco ma anche l’Algeria e la vicina Tunisia. Maha Abdelhamid, geografa, ricercatrice e attivista impegnata da anni nella lotta contro la discriminazione razziale nella società tunisina, sulle colonne di Jeune Afrique, a fine febbraio, ha raccontato: ”Nonostante la promulgazione di una legge che condanna il razzismo, in Tunisia i casi di discriminazione continuano ad esserci e anzi sono addirittura aumentate anche le aggressioni fisiche contro attivisti dei diritti della popolazione nera. La società tunisina continua a discriminare i neri. Il razzismo esiste in Tunisia come in tutte le società arabe”. Dal Medio Oriente al Nord Africa, dal Sahel alla Somalia, voci di denuncia di fenomeni di razzismo contro i neri non mancano ma episodi analoghi si verificano anche nella stessa Africa equatoriale, come testimonia il caso dei Pigmei Baka considerati inferiori, primordiali e privati di qualsiasi diritto civile nei Paesi del bacino del fiume Congo.

Quelli elencati sono solo alcuni dei casi riscontrati all’interno delle popolazioni africane, casi paradigmatici e utili per comprendere come nel mondo non ci sia un unico razzismo, ma discriminazioni ed emarginazioni si estendano ad ogni latitudine e ad ogni parallelo. Quindi, per evitare che #blacklivesmatter resti solo uno slogan nel turbinio degli eventi del 2020, è necessario porre l’attenzione anche là dove le telecamere dei media faticano ad arrivare e in quei luoghi da cui non sopraggiunge neppure l’eco di una statua abbattuta. Solo mettendo a fuoco il panorama delle esclusioni e delle emarginazioni si può ambire a scalfire il fortilizio de ”gli uni e gli altri”, altrimenti, la battaglia al razzismo non sarà un corsa verso un traguardo finale ma un perpetuo percorso circolare con qualcuno sempre più ”bianco” davanti e qualcun’ altro sempre più ”nero” dietro.





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