Lo stato di “quarantena” imposto dai decreti straordinari emessi dal nostro governo, ci sta costringendo in casa da oltre due settimane; e nonostante l’importanza di questa misura per il contenimento del virus Covid-19, gli effetti collaterali di un lungo isolamento sono stati analizzati da alcuni esperti, per valutare quali criticità posso emergere prima che tutti possano tornare liberamente alle proprie normali abitudini e quali le contromisure. Per quanto già molte analisi, economiche e sociali, stiano già spiegando che la normalità come la conoscevamo non tornerà. O almeno non nel breve periodo.
In questi giorni i social media – che in seguito all’età dell’oro di quando fecero ingresso nella nostra vita, hanno vissuto una non trascurabile fase di decadimento, accompagnata dalla denigrazione degli esperti e dei più adulti, che la dipingono sempre più spesso come una sorta di “sodoma e gomorra” virtuale dove i giovani e gli ormai noti “analfabeti funzionali” si scambiano frivolezze e fake news – sono diventati uno strumento indispensabili. Maggiormente che in passato, dato che nel momento del bisogno ci tengono connessi con il mondo esterno. Aiutando le persone ad evitare quelli che i sociologi definiscono genericamente “effetti dannosi dell’isolamento sociale”. Effetti che andranno considerati tra gli enormi danni collaterali della guerra combattuta in questa pandemia. Secondo i sociologi, infatti, gli effetti psicologici dell’isolamento potrebbero aggravare ulteriormente il danno “multiforme” che questo virus mortale sta causando alla nostra società.
Il distanziamento sociale – la base principale sulla quale stiamo impostando la campagna di contenimento del coronavirus in Cina e in Italia, e che sta fungendo da esempio per tutto il Mondo – si sta concentrando attualmente solo sugli effetti economici che segneranno duramente – per la seconda volta in un ventennio – l’economia mondiale già duramente colpita dalla crisi del 2008. E poco invece ci sta concentrando sugli effetti sociali e psicologici che potrebbero segnare in modo parzialmente irreversibile la vita di milioni persone: anche di coloro che non manifestavano delle “patologie pregresse” – un’altra espressione che è ormai tristemente entrata a fare parte nel nostro vocabolario di tutti i giorni. La lunga fase di isolamento che milioni di persone stanno vivendo, hanno vissuto – in Cina dovrebbe terminare il prossimo 8 aprile, dopo oltre 70 giorni; in Italia il 18 aprile dopo l’estensione – e si preparano a vivere – ad esempio gli Stati Uniti, dove il numero dei contagiati si è impennato fino a rendere l’America primo focolaio mondiale – non deve farci trascurare i cambiamenti riguardo la nostra percezione del mondo; mentre assistiamo alla cancellazione dalla nostra vita di tutti quegli eventi sociali che comprendono perfino il lavoro; e che costringono giovani e anziani a non poter uscire dalle proprie abitazione se non per procurarsi bene di primissima necessità; recandosi solo ed esclusivamente nei negozi di alimentari, nelle farmacie, nei giornalai e nelle tabaccherie.
Ad iniziare dagli anziani, molti dei quali vivono soli – data la lontananza dei figli o magari il decesso dei loro partner – e trovano conforto e compagnia nelle poche attività ricreative che spesso hanno luogo nei circoli adibiti; e proseguendo con le tutte quelle persone più o meno giovani che non possedendo magari un nucleo familiare con il quale interagire e confrontarsi, trascorrono gran parte del tempo dedicandosi al lavoro, o in occupazioni dopo lavoro che hanno spesso luogo all’esterno dei loro appartamenti, nei famosi “punti di ritrovo” che sono oggetto di “assembramento” e che per questo sono interdetti; e terminando con i bambini e minori che non hanno più modo di ritrovarsi nelle scuole di ogni livello e nei parchi, chiusi anch’essi per motivi di sicurezza (almeno in Italia, ndr). Per tutte queste categorie, l’assenza di normali rapporti sociali può rappresentare un pesante choc. E potrebbe influire in maniera addirittura più grave nella percezione di quelle persone che sono già orientate, o sono soggette, alle numerose quanto frequenti patologie psicologiche.
I report degli esperti
Tra i primi a sollevare questa preoccupazione negli Stati Uniti, è stato il professor Amitai Etzioni, sociologo con cattedre presso la Columbia University, l’università di Harvard e Berkley; ma numerosi sono gli esperti che in queste prime settimane iniziano a guardare alle conseguenze psicologiche che questo “isolamento forzato” causerà sulla nostra vita e sulla nostra mente. Le persone poste sotto isolamento – qualsiasi sia la ragione – presentano già di norma maggiori problemi di salute, fisica e mentale. Come riportato da un articolo pubblicato su The National Interst , James House, Karl Landis e Debra Umberson hanno scoperto come già durante il normale scorrere della vita gli “individui socialmente isolati o meno socialmente integrati sono meno sani, psicologicamente e fisicamente, e hanno maggiori probabilità di morire”. In un articolo pubblicato nel 2017, e posto all’attenzione del Comitato d’invecchiamento del Senato degli Stati Uniti, Julianne Holt-Lunstad ha constatato come: “la carenza di connessione sociale comporta un rischio comparabile e, in molti casi, superiore a quello di altri ben accetti fattori di rischio, tra cui il fumo fino a 15 sigarette al giorno, l’obesità, l’inattività fisica e l’inquinamento atmosferico”. Rilevando inoltre come le persone “isolate” finiscano per avere un “sistema immunitario meno efficace”. Mentre John Cacioppo e Louise Hawkley hanno dimostrato che” l’isolamento sociale comporta un incremento di rischi per la salute fisica e mentale, inclusa la ridotta capacità di far fronte a fattori di stress”. Holt-Lunstad aggiunge inoltre che “coloro che sono isolati hanno un rischio maggiore di depressione, declino cognitivo e demenza”; concludendo in breve che “la solitudine è l’equivalente sociale del dolore fisico provocato dalla fame e della sete“.
I social come soluzione a portata di click
È per questo dunque che i social media stanno tornando ad essere più di prima una piattaforma “fondamentale” nella nostra vita – ma questa volta non per il merito di “connetterci” con grande facilità a grandi distanze e farci condividere le nostre esperienze – ma per farci combattere la solitudine e aiutarci a superare l’isolamento forzato cui i governi ci stanno “costringendo” per salvaguardare la nostra salute e quella dei nostri cari.
I social media posso aiutare a combattere gli “effetti dannosi dell’isolamento sociale durante” durante la pandemia, affermano i sociologi americani. Un report rilasciato lo scorso 6 marzo negli Stati Uniti (in tempi non sospetti per l’espansione globale della pandemia) dal titolo “Considerazioni sulla salute mentale durante l’epidemia di Covid-19” redatto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, suggeriva infatti alle persone in isolamento di rimanere “in contatto via e-mail, social media, videoconferenza e telefono”, in modo tale da sopperire alle basilari necessità di socializzazione. Parti della nostra vita che possono apparire “scontate” a chi vive in una metropoli o a chi appartiene a quella fascia d’età che è abituata a “connettersi”, ma non è per forza abitudine di tutte quelle persone che vivono in centri abitati più piccoli (ad esempio frazioni in provinciali), o che svolgono mansioni e lavori che non lo contemplano affatto. O più generalmente a tutti coloro vivono la socialità virtuale in maniera diversa da come possiamo intenderla noi generazione Y e Millenials.
Il professor Etzioni ha sottolineato come alcuni potrebbero ad un primo approccio “deridere questa forma di connessione”, sottovalutando gli aspetti più profondi di questo appello dell’Oms. Tuttavia, portando all’attenzione alcune ricerche effettuate su campioni di “americani medi”m si nota immediatamente come venga supportata l’idea che “la tecnologia possa aiutare le persone a sentirsi meno sole”; avvalorando al tesi appunto che “l’utente medio di un sito di social network che ha legami più stretti ha metà della probabilità di rimanere socialmente isolato” di chi non ha mai trovato un vero senso per aprire un account su un social network come Facebook o Twitter. L’articolo prosegue del riportare esempi come quelli analizzati Weixu Lu e Hampton, che hanno scoperto – ma non è una novità – come: “gli aggiornamenti dello stato di Facebook e la messaggistica privata sono associati in modo indipendente al supporto percepito”, riferendo che “l’uso dei siti di social network è correlato a una riduzione del disagio psicologico” per determinati soggetti. Questo si riferisce soprattutto alle fasce di popolazione più anziana: ossia coloro che “non sono nati con uno smartphone in mano” – che invece potrebbero al contrario risentire di un ulteriore incremento dell’utilizzo ordinario. Due diversi studi europei hanno riscontrato effetti positivi sull’uso dei social network da parte delle popolazioni che supera i 65 anni di età. Dagli studi condotti da André Hajek e Hans-Helmut König infatti, si può notare come determinati “sentimenti”che potrebbero essere amplificati dall’isolamento sociale, sono portati a verificarsi più frequentemente “tra le persone di età superiore ai quarant’anni” che non possiedono social network; rispetto ai loro coetanei che invece si sono costruiti per proprio interesse una rete di contatti sociali virtuali che ora si rende quasi “necessaria”.
Il caso italiano
La dissertazione del professore americano pubblicata nelle scorse settimane faceva proprio riferimento agli “italiani”, un popolo definito pieno di “inventiva” che costretto alla “quarantena” ha aggiunto un tocco peculiare: “Isolati nelle loro case, si stanno riunendo sotto i portici per cantare“. Constatando come “le persone confinate nelle loro case possano raggiungere gli altri e migliorare le loro condizioni psicologiche” attraverso questo tipo di condivisione. Tralasciano la visione bucolica e in qualche modo sempre stereotipata del nostro paese, c’è in vero da convenire che l’inflazione di flash-mob e appuntamenti per gli oramai noti “canti di gruppo” abbiano fatto sentire meno sola una popolazione che non si era mai trovata a sopportare leggi così restrittive dal coprifuoco messo in vigore durante la seconda guerra mondiale. Non di meno la viralità di alcuni contenuti – più noti come “memes” – e l’improvvisazione su piattaforme come Instagram e Tik Tok di dirette video dove il pubblico è invitato a interagire, il unito al boom delle “videochiamate”, sta scandendo le giornate – che oramai si dividono tra smart working e applicazioni social – aiutando gran parte della società contemporanea – ovunque – a superare questa “sfida”.
Tutto questo però potrebbe non essere sufficiente per quella schiera, non esigua, di persone che già soffrivano del male della solitudine o di altre patologie psicologiche; e di coloro che per differenti motivi non possono raccogliere il consiglio dell’Oms che punta molto sulla “connessione” e sulla tecnologia che spesso non alla portata di tutti per ragione di economia familiare. Sono già al centro della cronaca numerosi eventi tragici – tra cui casi di suicidio- che possono darci la prova di come il coronavirus stia mettendo a dura prova ogni fronte nella “guerra” aperta che ha lanciato all’umanità: primi sentori del peso dell’isolamento e dello stress cui ci sta sottoponendo. È per questo motivo che ancora una volta lo sforzo di ogni cittadino – oltre a quello di compiere il suo dovere di rispettare la legge – potrebbe essere quello di “riflettere” su cosa potrebbe essere d’aiuto per quegli anelli più deboli della nostra società; spronandolo a fare la sua parte, sempre e comunque, per non lasciare nessuno solo dinanzi al suo destino.