Si chiamava Kujtim Fejzula il ragazzo di 20 anni di origini macedoni che il 2 novembre ha ucciso quattro persone a Vienna, in Austria, sparando in diversi punti della città. Il giovane era noto alle autorità perché era già stato condannato nel 2019 per terrorismo ad una pena detentiva di 22 mesi: Kujtim Fejzula era stato arrestato in Turchia mentre cercava di entrare in Siria per combattere al fianco dell’Isis e rimpatriato in Austria per essere processato. Il giovane aveva però trascorso in carcere solo un anno per poi essere rilasciato per buona condotta ed essere inserito in un programma di de-radicalizzazione.

Kujtim Fejzula era nato e cresciuto in Austria, ma la sua famiglia è originaria della Macedonia del Nord e proprio questo dettaglio ha riacceso l’attenzione sul pericolo radicalizzazione nei Paesi dei Balcani occidentali. Nati dopo la dissoluzione della Jugoslavia, questi Stati sono diventati terra di immigrazione per i jihadisti arrivati dai Paesi asiatici e del Golfo per aiutare i fratelli musulmani nella guerra inter-etnica che negli anni Novanta ha sconvolto la regione. Negli ultimi anni, però, con lo scoppio del conflitto siriano e la nascita dello Stato islamico tra Siria e Iraq, i Balcani si sono trasformati nei maggiori esportatori di jihadisti verso i nuovi teatri di guerra.

I numeri

Come riportato in uno studio pubblicato dal Combating Terrorism Centre di West Point, “Western Balkans Foreign Fighters and Homegrown Jihadis: Trends and Implication” a firma di Adrian Shtuni, il problema del jihadismo nei Balcani è ancora di estrema attualità e deve essere prontamente affrontato.

A dirlo sono i numeri: dal 2012 al 2019 circa 1.070 cittadini di Kosovo, Bosnia-Erzegovina, Nord Macedonia, Albania, Serbia e Montenegro si sono uniti alle fila dello Stato islamico in Siria e Iraq. Dopo la sconfitta del Califfato, una parte dei combattenti ha inoltre giurato fedeltà a Hayat Tahrir al-Sham (Hts), la milizia filo-turca attiva nella regione nord-occidentale di Idlib.

La maggior parte è costituita da maschi in età adulta (67 per cento), mentre il 15 e il 18 per cento è rappresentato da donne e bambini. “Il Kosovo è il Paese che ha mandato più uomini (256), la Bosnia Erzegovina più donne (61) e bambini (81). Il contingente balcanico in Medio Oriente è poi cresciuto, perché i militanti hanno fatto figli”. In generale, la Bosnia è il Paese balcanico con il più alto numero di cittadini partiti per la Siria, seguito da Kosovo e Macedonia. Questi tre Stati, sottolinea il rapporto, hanno registrato “tassi tra i più alti d’Europa” per quanto riguarda la “mobilitazione per organizzazioni terroriste jihadiste in rapporto alla popolazione”.

Durante la guerra contro l’Isis, circa 260 persone hanno perso la vita in combattimento, mentre atri 460 hanno fatto ritorno in patria. Gli stessi Stati Uniti hanno riportato in Macedonia del Nord alcuni miliziani detenuti nelle carceri curde del nord-est della Siria, ma secondo alcune stime del 2019 in Siria ci sarebbero ancora 500 individui di origine balcanica: per un terzo sono combattenti maschi, mentre il resto è rappresentato da donne e bambini.

Ma cosa farne dei combattenti e delle loro famiglie ancora presenti in Siria? Come ricorda Shtuni, i Paesi balcanici hanno enormi difficoltà nell’affrontare il problema dei jihadisti di ritorno a causa delle risorse modeste a loro disposizione. A ciò si aggiunge una politica europea negligente e che cerca molto spesso di scaricare sugli Stati balcanici le proprie responsabilità. I cittadini che hanno una doppia nazionalità vengono privati di quella europea e lasciati nelle mani degli altri Stati, come accaduto nel 2018 con il Kosovo, che ha dovuto farsi carico di un combattente di etnia albanese e dei suoi tre figli. L’uomo era nato in Germania da genitori kossovari e in terra tedesca era cresciuto e si era radicalizzato per poi unirsi alla brigata Lohberger. Berlino lo aveva però privato del passaporto tedesco, costringendo Pristina a rimpatriarlo e a processarlo per terrorismo, comminandogli una pena di soli cinque anni di carcere.

Le reti di radicalizzazione

La guerra in Siria e il flusso dei foreign fighters non sono che il sintomo di un male più grande che colpisce da decenni i Balcani. Nell’area vi sono infatti reti consolidate che promuovono la radicalizzazione, il reclutamento e la mobilitazione dei futuri combattenti “costruite attorno a enclavi salafite, moschee non ufficiali, e una pletora di associazioni caritatevoli religiose, movimenti e associazioni condotte da chierici fondamentalisti e fanatici religiosi”. Tali organizzazioni – presenti anche in Europa – hanno trovato nei Balcani un terreno fertile grazie alla povertà, alle diseguaglianze e alla vulnerabilità sociale derivante dalle guerre che hanno fatto seguito alla dissoluzione della Jugoslavia.

Fondamentali in questo panorama sono soprattutto le reti salafite, presenti nei Balcani fin dagli anni Novanta e che hanno saputo approfittare delle condizioni disastrose in cui versavano i Paesi balcanici all’indomani della guerra. Molte di queste organizzazioni – legate alle monarchie del Golfo – hanno usato programmi di assistenza umanitaria per aumentare la propria influenza nell’area e per diffondere la loro ideologia, creando così delle reti autoctone di reclutamento.

La radicalizzazione di una parte della popolazione balcanica, così come la crescita della presenza di Paesi terzi nell’area è stata ignorata dal resto d’Europa e molto spesso tollerata dai governi locali, troppo deboli per rinunciare ai fondi provenienti dal Golfo. L’attentato a Vienna dimostra però che il problema dell’estremismo così come quello del jihadismo di ritorno non sono più questioni circoscritte geograficamente all’area dei Balcani e rappresentano una minaccia anche per il resto del Vecchio continente.

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