All’inizio del 2020 il Libano, al centenario della fondazione da parte dei francesi, aveva tutto il diritto di domandarsi se questo compleanno sarebbe stato uno degli ultimi. Nel novembre dell’anno precedente l’economia era infatti collassata, come risultato di un insormontabile debito pubblico, un calo dei flussi di capitali in ingresso, una pessima amministrazione economica e una corruzione dilagante.
Ad oggi la situazione economica del Libano è così disperata che è legittimo domandarsi se il Paese riuscirà presto ad uscirne. Un report della World Bank dell’autunno 2021 descrive la situazione come “uno tra i dieci, se non tra i tre, più gravi collassi economici al mondo dal 1850”. Il report parla di una “recessione volontaria”, orchestrata da un’élite politica che si era impossessata del Paese e ne viveva a sue spese, e che ha portato al crollo dei pilastri dell’economia politica post-guerra civile. La valuta locale ha perso il 90% del proprio valore dall’ottobre 2019, e circa l’80% della popolazione vive in povertà.
Sebbene il Libano abbia concluso un accordo con lo staff del Fondo Monetario Internazionale lo scorso aprile, negli ultimi tre anni la leadership politica non è stata in grado di introdurre alcuna valida misura di riforma che ne permettesse l’implementazione. A fine luglio un diplomatico europeo mi disse quanto segue: “È chiaro che i libanesi non hanno intenzione di applicare le condizioni dell’accordo con il Fondo Monetario Internazionale”.
Alla luce di questa tetra situazione, nei prossimi mesi il Libano dovrà affrontare diverse sfide cruciali: la prima sono le elezioni presidenziali, il cui arco temporale avrà inizio alla fine di agosto; la seconda è la finalizzazione di un accordo con Israele in merito a dei contesi giacimenti di gas offshore; e la terza è, semplicemente, l’introduzione di misure di riforma per rendere possibile l’accordo con il Fondo Monetario Internazionale prima che finiscano le riserve di valute straniere.
Le ultime elezioni presidenziali in Libano dovevano tenersi nel 2014, ma vennero posticipate di due anni poiché Hezbollah ed alleati boicottarono il parlamento (che elegge il presidente) per imporre il proprio candidato, Michel Aoun. Uno scenario che improbabilmente si ripresenterà anche quest’anno; la crisi economica non lo permette, e ben pochi partiti sembrerebbero disposti ad ostruire il parlamento per portare in ufficio un candidato favorito o per impedire di votare un rivale.
Il presupposto di fondo ad oggi è che qualsiasi presidente che salga al potere debba avere il tacito benestare di Hezbollah. Benché nessuno sia ancora spiccato come favorito, in molti ritengono che il candidato con più probabilità di venire eletto sia Suleiman Franjieh, nipote e omonimo di un ex presidente. Franjieh è vicino ad Hezbollah ed è ben collegato al regime siriano. La sua elezione non porterebbe necessariamente del bene al Libano, in quanto membro della classe politica che ha aiutato a distruggere il Paese, mentre il suo appoggio ad Hezbollah temprerebbe soltanto gli sforzi del partito di mantenere il Libano sotto una forte influenza iraniana. Tuttavia Franjieh è in buoni rapporti con l’uomo che sarebbe verosimilmente il suo primo ministro, Najib Mikati, in modo che vi possa essere una concomitanza di punti di vista tra i due nell’affrontare la politica economica. La rivalità tra Mikati, al momento primo ministro ad interim, ed Aoun ha di fatto rallentato tutti i progressi sulla riforma.
Per Hezbollah, un presidente di cui potersi fidare è fondamentale in un momento in cui due vasti schieramenti si stanno formando nella regione. Da un lato abbiamo l’Iran con i suoi alleati, tra cui Hezbollah, e dall’altro Israele e la maggior parte degli Stati arabi contrapposti all’Iran, facendo seguito a quelli che erano noti come gli Accordi di Abramo del 2020. Chiunque verrà eletto dal Libano come presidente eserciterà una certa influenza su questa divisione regionale. Nonostante Franjieh (se mai venisse eletto) non sia ostile nei confronti dei Paesi arabi, specialmente quelli del Golfo, nel caso in cui venisse visto come la scelta di Hezbollah ciò potrebbe avere ripercussioni negative sul modo in cui il Libano verrà trattato dai governi arabi nella regione.
Una seconda sfida è che il Libano deve presto raggiungere un accordo con Israele su dei contesi giacimenti di gas offshore. La posizione libanese è cambiata ma è chiaro che, data la situazione economica, si tratti di una priorità a livello nazionale. Il fulcro della disputa ad oggi è che il Libano ha ufficialmente dichiarato che i propri giacimenti siano all’interno di quella che è nota come linea 23, ma vorrebbe vedere tale zona estesa fino ad includere tutto il giacimento di Qana. Il Libano è ancora in attesa della risposta di Israele, che dovrebbe arrivare a breve tramite un mediatore statunitense.
Eppure Hezbollah ha minacciato Israele con una reazione militare nel caso in cui i diritti del Libano non vengano rispettati. Questa potrebbe essere una mossa tattica, per dimostrare al proprio elettorato indigente di star difendendo gli interessi economici del Paese. Tuttavia tale minaccia comporta che, nel caso non venga raggiunto un accordo, si prospetti la possibilità di una guerra. Allo stesso tempo in realtà Hezbollah desidera raggiungere un accordo, in quanto i ricavi previsti potrebbero consentire al Libano di evitare di perseguire la strada della riforma con il Fondo Monetario Internazionale, che non gode del supporto di Hezbollah in quanto vista come un’estensione della potenza americana.
La terza sfida è quella di far fronte alle richieste di riforma del Fondo Monetario Internazionale. La classe politica considera ogni riforma sostanziale come una minaccia al proprio patronato e reti di corruzione. Ciò è stato dimostrato dalla sua immobilità negli ultimi tre anni, che non ha tenuto in considerazione delle sofferenze della popolazione. Tuttavia, se c’è una cosa che i politici devono sì tenere in considerazione sono le sempre minori riserve di valute straniere del Libano. Per un Paese che importa la maggior parte di ciò che consuma, le implicazioni sarebbero disastrose. Il Fondo Monetario Internazionale ha promesso dai 3 ai 4 miliardi di dollari, ma a meno che la classe politica non trovi un modo di introdurre delle riforme anche se limitate, si potrebbe plausibilmente raggiungere un punto in cui, dopo che le preziose riserve d’oro del Libano saranno state esaurite per guadagnare del tempo, vi sarà poco margine di manovra con il Fondo Monetario Internazionale.
Oltre a questi problemi nell’immediato, è evidente come il sistema politico libanese non funzioni più. Gli ultimi anni sono stati un lungo protrarsi di disfunzioni ed ostruzioni politiche. Le istituzioni statali non funzionano più come dovrebbero, ed il Paese sta perdendo molti dei propri giovani che preferiscono emigrare. Occorre urgentemente un nuovo contratto sociale, ma nessuno ne sta discutendo a livello ufficiale. Ed è questo il motivo per cui, anche se il Libano risolvesse tali problemi, il futuro del Paese nel lungo termine rimarrebbe incerto.