Quando una settimana fa Pechino è entrata in “modalità di guerra” per far fronte al focolaio di Covid rinvenuto nel mercato di Xinfadi, molti hanno subito puntato il dito contro uno dei cibi venduti nell’ingrosso alimentare più grande della capitale. Il salmone è finito nell’occhio del ciclone, accusato di aver diffuso il virus dopo essere stato importato dall’estero.

Le prove? Tracce virali trovate su un tagliere usato per preparare il pesce. Tanto è bastato per far scattare la psicosi da salmone, con ristoranti che hanno tolto ogni piatto a base di salmone dai loro menù e supermercati che hanno svuotato interi scaffali del presunto untore. La Norvegia, uno dei principali fornitori cinesi di salmone, è dovuta scendere in campo schierando il ministro della Pesca. Odd Emil Ingebrigsten ha spiegato che, dopo un incontro tra funzionari di due Paesi, l’allarme era rientrato: “Siamo in grado di eliminare l’incertezza e l’interruzione delle esportazioni di salmone in Cina. Il problema è stato risolto”.

Molti scienziati avevano subito escluso che l’origine del focolaio dello Xinfadi potesse essere attribuibile al salmone. Eppure non è da escludere che l’umidità e le basse temperature, cioè le condizioni necessarie per far arrivare il pesce fresco fino ai banchetti, possano in qualche modo agevolare la diffusione del Covid. Analisi e indagini sono tutt’ora in corso.

Covid e alimenti

Il virus è ancora sconosciuto e tante sono ancora le domande senza risposta. La più recente è: il Sars-Cov-2 si diffonde davvero attraverso il cibo? Secondo quanto scrive il South China Morning Post, che cita diversi esperti, è “altamente improbabile” che ciò possa avvenire. Più che il salmone, o i pesci in generale, molti scienziati ritengono che sia importante indagare sul bestiame. Le organizzazioni sanitarie e alimentari internazionali hanno più volte ribadito come non esistesse alcune prove capaci di dimostrare la diffusione del coronavirus attraverso prodotti alimentari o imballaggi. La Cina, dopo il focolaio di Xinfadi, ha comunque testato migliaia e migliaia di campioni di frutti di mare importati, carne e verdura. L’obiettivo delle autorità era trovare un presunto collegamento tra alimenti e diffusione del virus. Fino a questo momento, tutti i test citati hanno dato esito negativo. Il gigante asiatico ha tuttavia rafforzato i controlli sulle importazioni. Tra le restrizioni più recenti troviamo il divieto di importare prodotti provenienti da determinate aziende di carni straniere e la richiesta agli esportatori di confermare la sicurezza della merce da loro spedita.

Rischi bassi ma l’igiene è importante

In una nota congiunta a firma del segretario americano all’Agricoltura, Aonny Perdue, e del commissario della Food and Drug Administration, Stephen Hahn, si legge che “non ci sono prove che le persone possano contrarre Covid-19 da alimenti o da imballaggi per alimenti” e che “il sistema di sicurezza alimentare degli Stati Uniti, supervisionato dalle nostre agenzie, è il leader globale nel garantire la sicurezza dei nostri prodotti alimentari, compresi i prodotti destinati all’esportazione”. D’altronde gli Stati Uniti hanno importanti accordi commerciali sulla Cina. E non inviare più carni a causa di misure sanitarie rappresenterebbe un duro colpo per tante aziende Usa.

In ogni caso i funzionari doganali cinesi hanno ribadito quanto detto da alcuni esperti: la diffusione del Covid tramite il commercio alimentare è “estremamente bassa“. Dal canto loro, sia l’Organizzazione mondiale della Sanità che dall’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura è altamente improbabile che le persone possano contrarre Covid-19 da alimenti o imballaggi alimentari”. Anche se i rischi sono bassi, è tuttavia fondamentale garantire un’igiene adeguata per “ridurre il rischio di contaminazione del virus da parte dei lavoratori malati delle superfici e dei materiali di imballaggio degli alimenti”.





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