Le paure dell’effetto devastante di una epidemia di coronavirus sulla popolazione indigena dell’America latina hanno purtroppo iniziato a concretizzarsi: giovedì 9 aprile, un ragazzo di 15 anni appartenente alla comunità degli Yanomami è morto dopo sei giorni nell’unità di terapia intensiva dell’ospedale di Boa Vista, nel nord del Brasile. 

Alvanei Xirixan era stato ricoverato per la prima volta lo scorso 17 marzo per una sospetta meningite, secondo quanto riporta il quotidiano La Folha de São Paulo.

Diversi esperti di salute pubblica hanno manifestato la loro preoccupazione se il contagio dovesse diffondersi tra i popoli originari che vivono in paesi come il Brasile, il Perù, il Venezuela e l’Ecuador. Malattie altamente infettive come il morbillo,il vaiolo e l’influenza hanno infatti già in passato decimato intere comunità.

“Se il virus arrivasse all’interno dei villaggi, sarà un la causa di un alto numero di morti” ha dichiarato al quotidiano britannico Guardian Sofia Mendonça, un’esperta di salute brasiliana che lavora nel parco nazionale di Xingu. 

“Parliamo di un vero e proprio genocidio,” ha detto, ricordando come l’etnia dei Panará venne quasi spazzata via all’inizio degli anni ‘70 dopo si costruì una strada nelle loro terre.

Popolazione a rischio

Nel suo libro suo Le vene aperte dell’america latina, il saggista uruguaiano Eduardo Galeano sottolinea come batteri e virus furono i migliori alleati dei coloni europei nella conquista dell’America latina.

Studi recenti citati dal quotidiano britannico Guardian hanno mostrato che malattie come il morbillo o il vaiolo possono aver spazzato via fino al 90% delle popolazioni precolombine delle Americhe, ovvero 55 milioni di individui.

Xirixan non è il primo indigeno ucciso dal virus. L’Istituto socioambientale (ISA) ha riportato che una anziana del popolo Borari e un uomo di etnia Mura erano rispettivamente deceduti nelle città di Alter do Chão e Manaus.

Al momento, la Segreteria speciale per i popoli indigeni (Sesai) è a conoscenza di altri quattro malati di etnia kokama nella città di Santo Antônio do Içá.

La specialista in salute comunitaria Erika Arteaga Cruz dell’Associazione Latinoamericana di medicina sociale (Alames) ha però dichiarato dall’Ecuador ad Al Jazeera English che per ora non ci sono prove che le popolazioni originarie siano più suscettibili al virus degli altri, dato che tutti risultano esposti al contagio per la prima volta. Ma è il loro stile di vita a renderle più vulnerabili.

Per Arteaga, diverse società dell’Amazzonia non contemplano infatti l’uso di sapone o disinfettanti per la mani, ma sono soprattutto molto lontane dall’accesso a ospedali, dottori e medici.

Malattie e cercatori d’oro

Più di 26.000 Yanomami vivono sulla frontiera tra Brasile e Venezuela. La loro riserva – un vasto territorio di foresta pluviale che ricopre una superficie più grande dell’Irlanda – venne creata trent’anni fa circa in un tentativo di proteggere la popolazione dall’invasione dei cercatori d’oro.

Si stima infatti che, tra il 1960 e il 1980, l’irruzione nelle loro terre da parte dei minatori portò alla morte del 15% circa della popolazione, molti a causa di morbillo. Gli Yanomami temono perciò che la storia possa ripetersi.

Con il prezzo del metallo aureo in ascesa e le promesse del presidente Jair Bolsonaro di legalizzare l’attività dei cercatori, è stato infatti notato un aumento delle invasioni nel territorio. Secondo l’associazione Hutukara, nella zona opererebbero circa 25mila minatori illegali.

Secondo Infobae, Xirixana stesso viveva con la tribù Rehebe vicino al fiume Uraricoera, che rappresenta una via di accesso per diversi minatori d’oro.

Per coloro che vivono nel lato brasiliano desta inoltre particolare preoccupazione il depotenziamento della Segreteria di Salute Indigena, l’ente responsabile delle cure agli oltre 765.000 indigeni del paese, voluto dal governo lo scorso anno.

Villaggi chiusi

Per difendersi dal rischio di contagio, gruppi attraverso tutta l’America Latina si sono ritirati nei propri villaggi all’interno delle foreste o sulle montagne, bloccandone gli accessi.

Al Jazeera English ha documentato la ritirato dei gruppi indigeni Ecuadoregni. A fine marzo, la Confederazione delle Nationalità Indigene dell’Amazzonia Ecuadoregna (Confeniae) ha chiuso tutti gli accessi alla foresta, negando l’ingresso sia ai turisti che agli stessi cittadini,  chiedendo inoltre alle compagnie petrolifere e minerarie di bloccare la rotazione del personale che vi lavora all’interno.

Globo racconta che il parco nazionale di Xingu in Brasile, casa di 6.000 persone appartenenti a 16 diverse tribù, ha chiuso tutte le strade di accesso alla riserva.

In Perù, Segundo Chukipiondo, portavoce della Federazione Indigena dell’Amazzonia, ha chiesto alle oltre 2,000 comunità che rappresenta di sigillare le proprie frontiere.

Secondo Sofia Mendonça, questa strategia di sopravvivenza – già impiegata durante l’epidemia di H1N1 nel 2016 – comporta però anche dei rischi. Se infatti coloro che si ritirano nelle loro comunità non sono passati attraverso una appropriata quarantena, possono portare il virus con loro.

“E’ essenziale che rimangano in isolamento o un quarantena in modo da far ritorno al loro villaggio in modo sicuro,” ha dichiarato al Guardian, sottolineando però come tutto rischia di essere inutile se le autorità non faranno la loro parte nell’espellere gli intrusi dalle riserve.