Dopo l’11 settembre sia l’americano medio che il colletto bianco riscoprirono l’identità patriottica nazionale. Sacrario di quella ferita e di quella rinascita, ciò che restava del World Trade Center, passato in pochi minuti da simbolo di New York a cimitero di Gettysburgh postmoderno. Uno choc collettivo atroce quanto basta a rendere la prima, contestata, elezione di George W. Bush un mero ricordo, assurgendo la traballante presidenza a rifugio sicuro per una nazione impaurita. Tanto che, su quel trauma collettivo, lo stesso Bush si è poi guadagnato la rielezione.

Certo è che l’11 settembre ha ridato forza al mito del destino americano e alla tradizione del popolo eletto investito da una missione divina. Ma le luci delle tribute lights sembrano aver smesso di riscaldare il ricordo della tragedia e le tante, troppe faglie che stanno lacerando il paese, da Capitol Hill all’inadeguatezza delle ultime due presidenze, dalla pandemia alla crisi economica, sembrano ormai oscurare un anniversario che come portata emotiva è comparabile solo al 4 luglio.

Biden indice tre giorni di “ricordo e preghiera”

Quest’anno in particolar modo, nel bel mezzo dell’epopea giudiziaria di Donald Trump, della guerra in Ucraina e di una campagna elettorale 2024 così malamente cominciata, l’11 settembre sembra essere più un pretesto di disunione che altro. Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ha deciso di onorare le 2.977 vittime dell’11 settembre 2001 con tre giorni di ricordo e preghiera.

“Io, Joseph Biden Jr., Presidente degli Stati Uniti d’America – si legge nel provvedimento del 7 settembre – in virtù dell’autorità conferitami dalla Costituzione e dalle leggi degli Stati Uniti, proclamo l’8 settembre 2023, fino a settembre 10, 2023, come Giornate Nazionali di Preghiera e Memoria. Chiedo che il popolo degli Stati Uniti onori le vittime dell’11 settembre 2001 e i loro cari con la preghiera, la contemplazione, le cerimonie e le visite commemorative, le campane, le veglie a lume di candela e altre attività. Invito le persone di tutto il mondo a unirsi. Invito i cittadini della nostra nazione a ringraziare per le nostre numerose libertà e benedizioni, e invito tutte le persone di fede a unirsi a me nel chiedere la continua guida, misericordia e protezione di Dio”. Sebbene questo sia un invito al ricordo, il ricorso al triduo è evidente sintomo di crisi. Della ricerca di un appiglio, una tregua in un mare di confusione: niente del genere, infatti, era stato mai richiesto prima.

Biden grande assente alle cerimonie

La disunione, quest’anno, spacca anche il cerimoniale: il presidente americano sarà infatti nella base militare di Elmendorf-Richardson in Alaska, ad Anchorage, e da qui commemorerà il ricordo delle quasi 3 mila persone che persero la vita negli attentati: si tratta della prima volta che il capo della Casa Bianca non parteciperà ai tradizionali eventi organizzati sui luoghi della strage o, almeno, in diretta dalla Casa Bianca. Alla cerimonia presso il memoriale dell’11 settembre nella Grande Mela ci sarà la vice presidente Kamala Harris, mentre la First Lady Jill deporrà una corona di fiori al Pentagono: un’immagine ancora più disturbante, considerando i simbolismi del Pentagono e il ruolo non politico della prima signora d’America. Un infelice pasticcio d’agenda, quello che ha fissato questo pit stop per il presidente, di ritorno dal Vietnam dopo le fatiche del G20.

La stampa newyorkese, tuttavia, rifiuta di bersi la narrazione della sosta tecnica al freddo e al gelo, e scorge nel gesto un’ulteriore conferma delle tensioni tra il presidente, il sindaco Eric Adams e la governatrice Kathy Hochul, democratici, per la posizione che hanno assunto sulla questione migranti, denunciando l’eccessivo afflusso di rifugiati nell’intero Stato e, più ingenerale, nella Grande Mela. Non mancano poi le reprimenda di reduci della war on terror e comuni cittadini. Per tanti resta grave il fatto che Biden quest’anno non sia neanche alla Casa Bianca, definendo la cosa “un insulto e uno schiaffo agli americani”. Sul piede di guerra anche le famiglie delle vittime: questi ultimi temono, infatti, che la magistratura militare, che si occupa dei cinque strateghi degli attacchi detenuti a Guantanamo, possa offrire loro il patteggiamento; la vulgata vuole che la rabbia sia collegata alla possibilità per gli attentatori di evitare la pena di morte in cambio di una piena confessione. Ma il problema non è la pena di morte in sé, seppur invocata da molti americani, bensì il fatto che l’amministrazione Biden continui, dopo una roboante retorica sulla trasparenza, a trattenere informazioni sui legami tra il governo saudita e gli attentatori. Un eventuale patteggiamento, infatti, eviterebbe il processo nonché il dibattimento pubblico, un’operazione-verità che l’America attende da vent’anni. E che forse ricucirebbe molte ferite.

Le teorie del complotto e le accuse di Ramaswamy

Tantomeno si arrestano le teorie del complotto che iniziarono a circolare poche ore dopo l’attacco. Tra i movimenti complottisti più attivi, QAnon, che ha trovato il suo approdo naturale sui social network e sul web: una delle teorie più diffuse sostiene che il vero responsabile degli attentati sia il deep State, reo di aver organizzato e orchestrato gli attacchi. Nel Gop, invece, il vero incendiario è Vivek Ramaswamy, pronto a rubare la scena proprio nelle ultime ore. Tutto nasce da un’intervista che il candidato ha rilasciato a The Atlantic lo scorso agosto: “Penso sia legittimo dire quanti poliziotti, quanti agenti federali, erano sugli aerei che hanno colpito le Torri Gemelle. Forse la risposta è zero”. Sebbene lo stesso Ramaswamy sia entrato in conflitto con il magazine, accusando la rivista di citarlo malamente, la querelle è legata ai documenti declassificati dell’Fbi che raccontano di come i federali, due anni fa, abbiano chiuso le indagini su tre cittadini sauditi- Fahad Al-Thumairy, Omar Al-Bayoumi, Musaed Al-Jarrah-sospettati di aver fornito supporto e assistenza a due attentatori. Prima di chiudere il fascicolo, la polizia federale avrebbe riesaminato il caso nel 2019 e nel 2020, ma nessun elemento nuovo sarebbe venuto fuori: i tre, fra l’altro, non si troverebbero più negli Stati Uniti.

I documenti declassificati dell’Fbi, i Sauditi e DeSantis

Per Ramaswamy sarebbe giunto il momento che la Commissione sull’11 settembre sveli tutto quello che c’è da sapere, comprese le presunte connivenze saudite a proposito degli attentati. La complicazione nasce dalle versioni contrastanti che la stessa Fbi avrebbe fornito, soprattutto a proposito di Al-Bayoumi, che viene descritto, alternativamente, come un mero supporto casuale e logistico agli architetti degli attentatati, ma anche come uomo dei servizi segreti sauditi in America. Un aspetto gravissimo, alla luce di un flirt, quello Washington-Riad, che sembra riaccendersi. Ramaswamy, accusato perfino dai compagni di partito di voler essere il gaslighter d’America, rispedisce le accuse al mittente e promette di essere al memorial, domani.

Ma che la memoria dell’11 settembre sarebbe finita per impattare nella prossima campagna elettorale, era già chiaro da questa primavera quando Ron DeSantis aveva pensato bene di ospitare i familiari delle vittime, nel maggio scorso: molti di questi stanno affrontando una class action presso il tribunale federale di Manhattan contro l’Arabia Saudita, in assenza di un processo pubblico di levatura nazionale. Un asso nella manica di DeSantis, quando e se dovrà affrontare il rivale Trump, il quale, a mezzo di suo genero, spese quattro anni a coccolare i Sauditi.

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