L’America Latina è alle prese con il narcotraffico sin dall’epoca di Pablo Escobar e del cartello di Medellin ma è soltanto nell’ultimo ventennio che il problema ha assunto proporzioni continentali, complici la polverizzazione del panorama criminale, la pauperizzazione e la calcificazione della corruzione, finendo per riguardare in egual misura Messico e Colombia, Brasile e Paraguay, Argentina ed El Salvador.
Intere aree dell’Ispanoamerica hanno assunto la forma di zone grigie, ovverosia degli stati paralleli al di fuori del controllo delle autorità statali, dove vigono l’anarchia e la legge della strada e in cui le guerre tra bande, divenute una parte integrante di un’anormale quotidianità, vengono interiorizzate da abitanti orribilmente assuefatti alla violenza.
Nel solo Messico, la nazione più colpita dal fenomeno del narcotraffico, dal 2006 ad oggi sono state uccise più di 300mila persone, 34mila delle quali l’anno scorso, oltre 82mila sono scomparse e 150mila sono state costrette a migrare altrove. Le guerre iugoslave, durate un decennio e coinvolgenti stati, organizzazioni paramilitari e l’Alleanza Atlantica, per quanto crude, hanno mietuto meno vittime: 140mila decessi e 12mila dispersi.
Vi sono, poi, i casi curiosi della Triplice Frontiera, divenuta il paradiso infernale in cui si incrociano le strade di cartelli della droga e terrorismo internazionale, e dell’Ecuador, sede di un moto migratorio sui generis di narcotrafficanti provenienti dall’Albania che sta alimentando la violenza per le strade, soprattutto di Guayaquil, e ha catturato l’interesse e l’attenzione di Europol e Interpol.
Il narco-re di Quito parla albanese
Questa storia non inizia dal principio, anche perché un vero e proprio principio non c’è, ma dalla fine. La fine reca una data precisa: 15 settembre 2020, giorno in cui l’Europol e le forze dell’ordine di dieci nazioni hanno smantellato un cartello della droga unico nel suo genere, ovverosia senza analoghi nel resto del mondo.
Questo sindacato criminale transnazionale specializzato nel traffico internazionale di cocaina, noto come “Kompania Bello“, possedeva una peculiarità: era interamente albanese, da capo a coda, dalla sorgente alla foce. Albanese la manovalanza per le strade, albanesi i controllori della manovalanza, albanesi gli acquirenti delle partite di droga e albanese, incredibilmente, la fonte localizzata in America Latina.
La fonte si chiama(va) Dritan Rexhepi, ha 40 anni ed è un genio del crimine ricercato in Albania, Italia e Belgio per reati che spaziano dal traffico di stupefacenti ai delitti su commissione. La sua storia ha dell’incredibile per una serie di ragioni: è l’architetto di un sindacato criminale che non ha precedenti storici, vanta una sfilza di evasioni spettacolari dalle carceri, prima di darsi al narcotraffico era in procinto di laurearsi in legge all’università di Tirana, ed è divenuto il re della droga da una cella, in quanto detenuto dal 2014, anno in cui è stato arrestato a Quito con 278 chilogrammi di cocaina e condannato a tredici anni di reclusione.
Rexhepi avrebbe dovuto essere innocuo, almeno in linea teorica, in quanto incarcerato e oggetto di un regime di sorveglianza particolarmente elevato in ragione della sua caratura criminale. Così non era, non lo è mai stato, perché Rexhepi ha creato e gestito a distanza Kompania Bello per sei lunghi anni, commissionando almeno due omicidi in questo periodo – secondo i procuratori italiani – e amministrando un giro d’affari che soltanto fra il 2016 e il 2017, invadendo l’Europa con 6.022 chilogrammi di cocaina, avrebbe fruttato 141 milioni di euro.
Come si diventa dei narco-re
Come è giunto Rexhepi a Quito? E come ha fatto a scalare i vertici del narco-panorama ecuadoriano? La storia di questo gangster pittoresco inizia nell’Albania dei turbolenti anni ’90. La feroce dittatura di Enver Hoxha è caduta e la nazione è abbandonata a se stessa, preda dell’anarchia, e il giovane Rexhepi abbandona il sogno di una carriera nella giustizia scegliendo la strada opposta: il crimine. Una scelta sofferta, dirà alcuni anni più tardi ad un giornalista, spiegandogli che “avevo due opzioni: arrendermi al sistema marcio e ingiusto dell’Albania, che mi avrebbe condannato all’ergastolo, o cercare una seconda occasione facendo qualcos’altro con la mia vita. Per questo sono entrato nel traffico di droga”.
Perché uno studente di legge avrebbe dovuto temere una condanna a vita? A questa domanda è stata data una risposta nel 2013, quando Rexhepi, già latitante, è stato condannato a venticinque anni di reclusione da un tribunale di Tirana per due omicidi avvenuti nel 1998, uno dei quali di un poliziotto. Non un semplice studente, quindi, ma un abile criminale la cui carriera, iniziata nella realtà degli omicidi su contratto, sarebbe sfociata prima nelle rapine a mano armata – in Belgio – e poi nel traffico di stupefacenti.
Prima di approdare in Ecuador, Rexhepi ha traversato il Vecchio Continente sia da detenuto che da ricercato. Condannato da un tribunale nostrano per traffico di cocaina, viene identificato nei Paesi Bassi e da lì estradato in Italia nel 2008. Evade dal carcere di Voghera nel 2011 segando le sbarre con una lima e annodando le coperte del letto, come in un film. Catturato in Spagna alcuni mesi più tardi ed estradato in Belgio, dove era ricercato per una rapina a mano armata, viene rinchiuso ad Antwerp. Fuggito anche da lì, questa volta avrebbe abbandonato l’Europa alla volta dell’America Latina.
Giunto in Ecuador, l’intraprendente genio del crimine riesce a entrare nelle grazie del più importante narcotrafficante della nazione, Cesar Emilio Montenegro Castillo, detto “Don Monti”, che, a sua volta, è in affari con il cartello colombiano di Norte del Valle e con l’indiscusso re dei re della droga, Joaquin “El Chapo” Guzman.
L’idillio nasce quando Rexhepi risolve i problemi di Montenegro Castillo, il quale si avvaleva dei canali di trasferimento del denaro offerti dalle organizzazioni criminali cinesi lamentandosi in continuazione dei loro elevati tassi di commissione. Confermando l’eterna validità del rasoio di Occam, il narco albanese propone di eliminare i mediatori, ovvero i cinesi, e inviare il denaro utilizzando degli “economici” corrieri albanesi ed effettuando tante piccole operazioni tramite Western Union. L’idea persuade e convince il boss, che, a partire da quel momento, avrebbe affidato a Rexhepi, oltre alla gestione della contabilità, l’amministrazione dei carichi di droga da spedire in Europa.
Kompania Bello
Rexhepi viene arrestato a Quito nel giugno 2014 durante un’operazione che ha condotto al sequestro di 278 chilogrammi di cocaina. Condannato a tredici anni di reclusione, corrompendo buona parte del personale penitenziario riesce ad avere accesso a varie comodità, a organizzare incontri di lavoro e a possedere un cellulare in maniera permanente. Chiuso in una cella, ma armato di telefono, Rexhepi sfrutta i propri contatti in Europa e il denaro e la droga di Montenegro Castillo per dare vita a Kompania Bello.
Il cartello è unico nel suo genere: ha la forma di una “federazione transnazionale” ed è composto interamente da organizzazioni criminali albanesi con base nel Vecchio Continente, quattordici per la precisione, alle quali fa capo Rexhepi. È lui che procura loro la droga, ed è sempre lui che si occupa della contabilità: nessun intermediario tra Tirana e Quito. Per la prima volta nella storia, i narcotrafficanti albanesi non devono rivolgersi ai rappresentanti in Europa dei cartelli latinoamericani né alle mafie italiane: sono loro che gestiscono il traffico, dal montaggio alla distribuzione.
La logica di Kompania Bello è semplice ma pratica: la cocaina viene spedita via nave ed entra nel Vecchio Continente dai porti di Antwerp e Rotterdam, il denaro viene ripulito attraverso il sistema cinese fei ch‘ien, i membri comunicano in codice utilizzando esclusivamente servizi crittografati e vengono organizzate periodicamente delle sessioni di “brainstorming” per lavorare a nuovi metodi di trasporto, di depistaggio delle indagini e di riciclaggio dei proventi illeciti. Nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile, però, in mancanza di un elemento fondamentale: la corruzione. Corrotte erano le guardie nel carcere di Quito, come corrotto era il personale nei porti selezionati per lo smercio dei carichi.
L’organizzazione, inoltre, si era data un codice di condotta basato sull’omertà e sulla fedeltà. Ogni membro, entrando a far parte di Kompania Bello, accettava di sottostare ad una serie di regole, tra le quali la ritorsione nei confronti della propria famiglia in caso di tradimento. I capi-banda, inoltre, si impegnavano a reclutare nuovi soldati e spacciatori tra le diaspore, specialmente di Paesi Bassi e Italia, per sveltire la vendita delle partite e creare un clima del silenzio impermeabile ad eventuali tentativi di infiltrazione da parte della polizia.
L’epopea di Kompania Bello è durata fino al 15 settembre dell’anno scorso, giorno in cui Europol, Interpol e varie polizie nazionali hanno tratto in arresto venti persone in dieci Paesi, tra i quali Albania, Italia, Romania ed Emirati Arabi Uniti, e posto fine alla carcerazione dorata di Rexhepi. Si consideri, inoltre, che nei cinque anni che hanno preceduto l’operazione finale, denominata Los Blancos, 84 trafficanti appartenenti al cartello erano stati arrestati tra Italia, Ecuador, Paesi Bassi, Regno Unito, Svizzera e Germania.
I narcos albanesi alla conquista dell’Ecuador
Rexhepi è unico nella maniera in cui ha saputo creare un narco-impero transnazionale interamente albanese, dalla sorgente alla foce, ma non è il solo criminale proveniente da Tirana che ha fatto fortuna a Quito. L’Ecuador, invero, negli anni recenti ha scoperto di avere un problema di narcotraffico di importazione: narcotraffico shqiptare.
Indagini ufficiali hanno appurato che dei 180 cittadini albanesi che hanno fatto ingresso in Ecuador nel 2018, almeno 20 sarebbero stati dei potenziali trafficanti di droga. Un lento assedio, iniziato nei primi anni 2000 e avvenuto all’ombra della corruzione dilagante e di mille altri problemi, che, negli ultimi tempi, ha rotto il silenzio e cominciato a fare rumore, rumore di pistole. La scia di sangue lasciata dal narcotrafficante shqiptare nell’insospettabile Ecuador è lunga, e qui verranno elencati soltanto alcuni degli eventi più degni di nota:
- Guayaquil, 11 aprile 2013. Viene ucciso a colpi di pistola il giornalista investigativo Fausto Valdiviezo, ventinove anni di carriera e fama nazionale. Movente ed esecutori permangono ignoti ancora oggi, ma le indagini hanno condotto gli inquirenti a sospettare il coinvolgimento di Adriatik Tresa, un narcotrafficante albanese approdato nel Paese nel 2011.
- Guayaquil, maggio 2017. Alcuni sicari in moto uccidono Ilir Hidri, albanese e presunto narcotrafficante.
- Guayaquil, novembre 2017. Un commando in Suv fa fuoco in direzione di Remzi Azemi, albanese e presunto narcotrafficante, il quale riesce a scappare e sopravvivere.
- Guayaquil, marzo 2018. Assassini professionisti travestiti da poliziotti prelevano i coniugi Kacanic, montenegrini di nazionalità di albanese, i cui corpi (senza vita) verranno ritrovati successivamente.
- Guayaquil, 20 novembre 2020. Il copione dei finti poliziotti (gli stessi?) viene rimesso in scena, questa volta per eliminare Tresa. L’uomo, che viveva in una lussuosa dimora nel cuore de La Aurora, la comunità chiusa più esclusiva della città, viene ucciso da un plotone composto dalle tre alle sette persone.
Ma perché l’Ecuador? Le ragioni sono molteplici, dalla vaporosità delle frontiere alla permeabilità delle forze dell’ordine alla corruzione, dalla posizione geostrategica dei suoi porti al possesso di un’economia priva di meccanismi contro il riciclaggio del denaro illecito. Inoltre, la presenza di un panorama criminale decentralizzato e deterritorializzato, contrariamente a Colombia, Brasile o Messico, permette ai gruppi criminali esteri un grado di autonomia piuttosto elevato – come dimostrano Kompania Bello e i regolamenti di conti tra le varie bande albanesi operanti a Guayaquil.
Una cosa è sicura: la curiosa odissea del narcotraffico shqiptare trapiantato in Ecuador non è terminata con lo smantellamento di Kompania Bello né con l’esecuzione cinematografica del temibile ed enigmatico Adriatik Tresa. Nuovi Rexhepi e nuovi Tresa sorgeranno inevitabilmente perché, oramai, nelle realtà criminali di Quito e Guayaquil si parla più albanese che spagnolo.