Non c’è solo il forte risentimento anti Pechino di numerosi cittadini a fare da combustibile alle proteste che ormai da mesi si abbattono ogni fine settimana, a cadenza regolare, sulla città di Hong Kong. La radice della rivolta può essere individuata in un ginepraio che riunisce aspetti burocratici, giudiziari e diplomatici. Facciamo un passo indietro per capire il vero motivo per cui il governo dell’ex colonia britannica guidato da Carrie Lam (non si sa ancora per quanto) è stato costretto a tirar fuori dal cilindro la proposta di riforma di legge sull’estradizione in Cina. Nel febbraio 2018 un ragazzo di 20 anni, tale Chan Tong Kai, confessò di aver ucciso la fidanzata Poon Hiu Wing, allora poco più che maggiorenne e incinta di 15 settimane durante una vacanza a Taiwan. Dopo aver commesso l’omicidio, Chan fece ritorno a Hong Kong e qui confessò quanto commesso. La polizia locale non ha alcuna giurisdizione per i reati commessi a Taiwan, quindi il reo confesso è stato sì arrestato ma per una serie di altri reati, tra cui riciclaggio di denaro.

La “provincia ribelle”

Il pasticcio è fatto e il motivo è semplice: il ragazzo è stato sì arrestato ma per altri reati, perché senza alcuna prova le autorità hongkonghesi non hanno potuto condannarlo in maniera definitiva per l’omicidio commesso. Solo Taiwan, infatti, avrebbe potuto fornire le prove sufficienti per farlo, ma Hong Kong a sua volta avrebbe dovuto estradare Chan verso l’isola. Un atto del genere avrebbe avuto l’effetto di riconoscere quella che la Cina considera una sua “provincia ribelle”, e scatenato una grana diplomatica non da poco. In poche parole, Taiwan è indipendente, ma è riconosciuta da pochissimi Paesi, tanto che Pechino la considera tranquillamente un “suo affare”.

Burocrazia e diplomazia

Scontata una pena di 19 anni di carcere, l’assassino è da pochi giorni tornato in libertà. Adesso Chan, pentito, ha intenzione di consegnarsi alle autorità di Taiwan. Ma i problemi non sono finiti qui, perché, i taiwanesi considerano Taipei solo una capitale temporanea, in attesa della riunificazione cinese (dal punto di vista nazionalista). La “provincia ribelle” considera Nanchino la sua vera capitale, città che oggi si trova in Cina. Dunque le autorità taiwanesi chiedono che a prendere in consegna il ragazzo siano gli agenti di Nanchino: ipotesi impossibile. È dunque evidente come la decisione di Hong Kong di riformare la legge sull’estradizione in Cina sia giustificata da un enorme vuoto normativo che ha origini storiche. Nel caso in cui l’ex colonia inglese avesse subito spedito il ragazzo in Cina, non sarebbero successe tutte quelle violenze che abbiamo più volte visto in televisione. I numeri parlano di un bollettino di guerra, con oltre 2 mila feriti e altrettante persone arrestate, a cui si aggiungono almeno una decina di morti. Alla fine Carrie Lam è stata costretta a ritirare il provvedimento sulla legge incriminata. Intanto, però, il vuoto normativo resta lì al suo posto. Fino al prossimo caso simile.

Perché sarebbe servita una legge sull’estradizione

Dicevamo. tra Hong Kong e la Cina non esiste alcun trattato di estradizione. Questo significa che criminali, ladri, delinquenti e contrabbandieri possono tranquillamente tuffarsi nel vuoto normativo esistente e sparire nei meandri burocratici. In pratica, chi commette per esempio un crimine a Taiwan e fugge nell’ex colonia inglese è pressoché intoccabile. La normativa proposta da Carrie Lam avrebbe permesso l’estradizione dei criminali che si fossero macchiati di alcuni delitti (come omicidio e stupro) non solo vero la Cina, ma anche verso Macao e Taiwan, perché come detto Pechino considera Taipei solo una “provincia ribelle”. Per il momento, niente di tutto questo potrà verificarsi.





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