Un sistema politico diverso rispetto al nostro, incentrato sul decisionismo “dall’alto” anche laddove sulla carta vige la democrazia. Una cultura agli antipodi, che pone in primo piano la salvaguardia della comunità alle esigenze del singolo. L’essere abituati a combattere contro nemici invisibili, come Sars e Mers, e quindi aver accumulato esperienza preziosa in termini di conoscenze e rapidità di risposta d’innanzi a un’epidemia. Se analizziamo il problema in modo superficiale, quelle appena elencate possono essere considerate valide spiegazioni del perché l’Estremo Oriente, a differenza dell’Occidente, sia riuscito a contenere la diffusione del coronavirus.
E per contenimento del virus non intendiamo aver rallentato la sua corsa attuando coprifuochi o lockdown. Al contrario, almeno fino a questo momento, l’Asia è letteralmente riuscita a convivere con il virus. Che è un po’ quello che esperti e politici occidentali vanno ripetendo da mesi: “Dobbiamo imparare a convivere con il virus”. Il problema è che la convivenza con il Sars-CoV-2, in America così come in Europa, non ha dato risultati sperati. Per quale motivo, invece, i governi asiatici sono stati in grado di normalizzare la vita dei propri cittadini al tempo del Covid-19? No, non c’entrano soltanto le tre spiegazioni date a inizio articolo.
Le ragioni del successo asiatico
Il primo vero abisso in termini di lotta al coronavirus che c’è tra Oriente e Occidente è l’utilizzo delle nuove tecnologie. Giusto per fare un confronto, in Italia la fantomatica app Immuni è stata un flop totale, così come almeno due delle fantomatiche “tre T” – testing e tracing, ovvero testare i cittadini per scovare i positivi e tracciare i loro contatti – sono sprofondate nel fango. In Corea del Sud, invece, la strategia delle tre T ha funzionato alla perfezione, dato che su 50 milioni di abitanti si contano appena 25mila contagi.
A seguire troviamo il modus operandi attuato dai vari governi asiatici, molto più desiderosi di risolvere il problema alla radice (consentire ai cittadini di poter vivere e non solo sopravvivere in attesa del vaccino) che non lanciare al vento proclami populisti. Nessuna pioggia di decisioni dai contenuti incomprensibili. Molto più semplicemente, pochi obblighi ma semplici e funzionali: indossare la mascherina, rispettare (per davvero) la distanza sociale, trascorrere la quarantena, se si è positivi, in apposite strutture, separare i centri in cui si effettuano test da strutture sanitarie.
Esempi virtuosi
Senza scomodare la Cina, molto spesso criticata per aver attuato – a detta di molti – un modello troppo autoritario, l’Asia offre moltissimi altri esempi virtuosi di contenimento del coronavirus. La Corea del Sud, accennata poc’anzi, è uno di questi. Ma lo è anche Singapore, città-Stato di 5,6 milioni di abitanti con circa 60mila contagiati. Le dimensioni aiutano, certo, ma a fare la differenza è stato il sistema di tracciamento attuato dalle autorità locali. Grazie alla app per il tracciamento elettronico sviluppata dal governo, scaricata da 2,4 milioni di cittadini, la catena dei contagi è tornata ben al di sotto dei livelli di guardia.
Che dire di Taiwan? Snobbata persino dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms), la piccola isola situata nel Mar Cinese Meridionale ha agito fin da subito mettendo in campo un modello d’azione aggressivo: test a tappeto, isolamento dei positivi, tracciamento, frontiere chiuse. Risultato: sette vittime e meno di 600 contagi su un totale di 24 milioni di abitanti. La ciliegina sulla torta, in ogni caso, è rappresentata dalla Cina.
Impossibile non citare il gigante asiatico, che ha puntato tutto su un complesso sistema di sorveglianza elettronica capace di attribuire a ogni singolo abitante dell’ex Impero di Mezzo un codice a semaforo, aggiornato in tempo reale: rosso, giallo e verde. Insomma, ci si può muovere soltanto se non si è una minaccia per la comunità. Pechino è inoltre in grado di effettuare milioni e milioni di tamponi nel giro di pochi giorni: altro che attese infinite.
Cosa dobbiamo imparare
Le esperienze asiatiche sono efficaci. Eppure è impensabile trasportare quei modelli in Europa senza considerare il differente contesto socio-politico dei due continenti. Quanti europei sarebbero disposti a sacrificare la loro privacy in nome di un tracciamento perpetuo in chiave anti Covid? Quanti dormirebbero sogni tranquilli nel sapere di essere controllati mediante un’applicazione? E quanti, ancora, accetterebbero di indossare mascherine e limitare gli spostamenti senza battere ciglio?
Se è dunque impossibile trapiantare questi modelli vincenti in Occidente, è tuttavia possibile prendere appunti per copiarne gli aspetti più funzionali. La lezione più grande da imparare a memoria? Dotarsi al più presto di logistica e tecnologia efficienti, così da gestire i contagiati senza danneggiare l’economia con improbabili lockdown o serrate.
È interessante, poi, ascoltare cosa ha detto il politologo Parag Khanna a Repubblica in merito alla diversità politica che contraddistingue l’Occidente dall’Oriente. Secondo Khanna, i cittadini asiatici si fidano dei propri governi, “credono nella loro competenza e nel fatto che vogliano proteggere la vita e il benessere delle persone, che non agiscano secondo logiche politiche ma comprendano il rischio”. Ovviamente, ha aggiunto, “c’è il fatto che quei governi sono davvero competenti e trasparenti”. Perfino la Cina è stata “molto diretta e trasparente nel comunicare ai cittadini il senso delle misure adottate, che non a caso sono state rispettate da tutti”. In altre parole, il successo della risposta dei Paesi asiatici, tra loro molto diversi, “non ha a che fare con il tipo del regime, autoritario o democratico, bensì con la competenza, l’efficacia delle misure e la trasparenza”. Una competenza che molto spesso è mancata ai politici occidentali.