Era successo durante la prima ondata e si sta ripetendo adesso con l’impennata di nuovi casi Covid-19. Centinaia di cinesi si organizzano come possono per lasciare i Paesi europei. Vogliono tornare in patria. Là, oltre la Grande Muraglia, dove il virus ha smesso di circolare da mesi e la vita è tornata alla normalità. Ma questa volta non è solo a causa della migliore situazione sanitaria che molti sperano di tornare a casa. Ad attirare gli expat cinesi è la prospettiva di ricevere, in anticipo rispetto al resto del mondo, il vaccino anti coronavirus.
In aggiunta ai trial clinici, la Cina ha infatti già iniziato a somministrare il vaccino in alcune città, e soltanto ad alcune categorie di persone “a rischio”. Stiamo parlando di un medicinale sperimentale, per il quale cioè si attendono ancora gli ultimi dati per scongiurare l’insorgenza di effetti indesiderati nel lungo periodo. Poco importa, perché nei luoghi di distribuzione del vaccino, da giorni, si sono create lunghe file. La fiducia dei cittadini cinesi nei confronti del governo è salita alle stelle dopo che Pechino, a differenza di molti Paesi stranieri, è stata in grado di arginare la diffusione di una pandemia che sembrava fuori controllo.
Il piano della “fuga sanitaria”, tuttavia, non è così semplice. Prendiamo il caso dell’Italia. Tralasciando la quarantena obbligatoria di 14 giorni richiesta da Pechino per tutti i viaggiatori provenienti dall’estero (a proprie spese in una struttura indicata dalle autorità), dal 4 novembre chiunque si rechi in Cina dall’Italia deve presentare al momento dell’imbarco il risultato negativo del tampone e una dichiarazione di salute vidimata dalle autorità consolari della Repubblica Popolare cinese in Italia. Non solo: è richiesto anche il risultato del test sierologico. Entrambi i test dovranno essere svolti non più di 48 ore prima del volo. In caso di scalo intermedio si richiede la replica degli stessi test nel Paese di sbarco con le medesime modalità temporali. Insomma, va da sé che adesso, tornare in Cina, è diventata un’impresa pressoché impossibile.
L’illusione della sicurezza
Il vaccino fa gola a tanti cinesi. Ma riceverlo, come detto, non è facile come andare in un supermercato e comprare una bottiglietta di acqua. Nella provincia dello Zhejiang varie città hanno iniziato a offrire il siero sperimentale ad alcuni membri selezionati del pubblico, per lo più cittadini che hanno bisogni urgenti, tra cui lavorare o studiare all’estero. È successo a Yiwu, Ningbo, Shaoxing e Jiaxing. Nessun annuncio ufficiale da parte del governo. Solo qualche articolo pubblicato dai media locali che ha generato un fitto passaparola sui social. Tanto è bastato per convincere un elevato numero di cittadini a spostarsi, anche per migliaia di chilometri, per raggiungere i centri che distribuiscono il siero. Il ritornello è sempre lo stesso: “Con il vaccino in corpo è molto più sicuro lasciare il Paese”.
“Tutti coloro che hanno urgenti necessità di vaccinazione possono andare alla clinica della comunità per consultazioni con la premessa di un consenso volontario e informato”, ha pubblicato, lo scorso 15 ottobre, il Jiaxing Center for Disease Control sul proprio account WeChat ufficiale. Qui il costo è di 400 yuan, 60 dollari, per due dosi, richiamo compreso. Come riportato dalla Cnn, le autorità di Jiaxing e Yiwu non hanno delineato esplicitamente che cosa costituisce un bisogno “urgente” del vaccino né quali prove sono necessarie per dimostrarlo.
Ma soprattutto non hanno spiegato perché la distribuzione del siero sperimentale è stata consentita in queste piccole città e non nelle metropoli più grandi come Pechino e Shanghai. Un articolo pubblicato dal Global Times ha negato che i vaccini Covid-19 fossero disponibili al pubblico. E in effetti sembrerebbe esser così, visto che i medicinali sarebbero destinati a un ristretto numero di persone. In alcuni centri, ha scritto il quotidiano cinese, i cittadini possono lasciare i loro nomi e le informazioni di contatto e attendere un ulteriore avviso.
Quale vaccino?
Non sappiamo quale sia il vaccino somministrato ai primi pazienti cinesi. O meglio: l’autorizzazione all’uso emergenziale è stata data a più antidoti. Secondo quanto riferiscono i media cinesi, Pechino avrebbe oculato a decine di migliaia di cittadini vaccini sperimentali prodotti dalla società farmaceutica cinese China National Biotech Group (CNBG), la più grande produttrice di vaccini della Cina nonché sussidiaria dell’azienda statale Sinopharm, a sua volta società madre del famigerato Wuhan Institute.
Il New Yorker ha scritto il nome di un vaccino, Xinxing Guanzhuang Bingdu Miehuo Yimiao (Vero Xibao), ma è probabile che siano stati somministrati più medicinali realizzati da diverse aziende. Almeno due: Sinovac e la citata Sinopharm. Fin qui la vaccinazione ha riguardato una ristretta fetta di popolazione, composta da sindaci, funzionari, direttori di grandi aziende statali, doganieri, lavoratori che vivono all’estero, qualche studente in procinto di rientrare in Europa o negli Stati Uniti. Ma potrebbe presto essere estesa a tutti. Se per gli occidentali l’idea di essere vaccinati prima della piena approvazione del medicinale può sembrare scioccante e antiscientifica, in Cina tutto questo è visto positivamente: è una sorta di modo, da parte di funzionari e dirigenti, di mostrare fiducia nei confronti delle autorità.
È infine importante sottolineare un ultimo aspetto sottolineato dal New Yorker: la Cina non è la Russia. Mentre gli sforzi russi nella produzione di un vaccino sono stati accolti con scetticismo, la comunità scientifica prende sul serio la tecnologia e la professionalità messe in campo dal Dragone. Superata una fase di scandali legata proprio ai vaccini, Pechino ha infatti inasprito le normative in materia, così da trasformare gli standard per gli studi di Fase III e renderli pressoché identici a quelli usati dagli Stati Uniti.