Allarme rosso a Marsiglia. Se il 2022 si è concluso con un tragico bilancio – 39 omicidi e 65 sparatorie per fatti di droga – il 2023 si annuncia ancor più sanguinoso. Lo scorso 5 aprile il tribunale cittadino ha comunicato che dall’inizio dell’anno si contano già 14 morti e 43 feriti. In più, dal primo gennaio ad inizio aprile, la procura ha emesso 32 mandati per omicidio o tentato omicidio. Il dato inquietante è l’età delle vittime e dei carnefici. A differenza del passato – i sulfurei tempi di Albert Bergamelli, Jacques Berenguer, della French Connection e del clan dei marsigliesi – questa volta si tratta di giovanissimi, per di più quasi tutti minorenni. Uno strambo esercito di ragazzini disperati e violenti, in gran parte immigrati arabi di seconda generazione, che si disputano, armi alla mano, le piazze di spaccio della devastata periferia e del centro storico.

Si tratta di un affare ben remunerativo – con 1.752mila abitanti Marsiglia e dintorni è la seconda aerea urbana di Francia – e ben organizzato: secondo gli inquirenti il tutto è gestito dai padrini delle organizzazioni criminali locali a loro volta collegati ai cartelli dei narcos marocchini (hashish) e sudamericani (cocaina). I boss, dalle molto porose galere o dall’estero, delegano a loro volta il lavoro sporco alle diverse bande giovanili, ai “minots” che entrano ed escono dal riformatorio o dalle case famiglia e poi, una volta sul campo di battaglia, sparano, uccidono e spesso muoiono. Lo scorso week-end l’ultima mattanza: un morto e due feriti gravi, età 16, 15 e 13 anni, tutti già segnalati per attività legate al narco traffico. Il più “vecchio” dei tre è morto sparato in testa nella notte di sabato. Il 31 marzo il tribunale per i minorenni lo aveva destinato a misure educative, un percorso di reinserimento nella società.  Adesso è al cimitero.

La violenza non si ferma e le sparatorie continuano. La manovalanza non manca: per sorvegliare un punto di vendita, un “chouf” nel dialetto franco-algerino, un ragazzino guadagna almeno 100 euro al giorno. La paga iniziale. Poi, a seconda delle capacità criminali del soggetto, la retribuzione cresce esponenzialmente. Intanto gli organizzatori intascano soldi importanti. Secondo le stime di polizia ogni centro di distribuzione vale circa 80mila euro al giorno, più che sufficienti per combattere, per mantenere o strappare al clan avversario pezzi di territorio. A qualunque costo. Assalto dopo assalto, rappresaglia dopo rappresaglia, vendetta dopo vendetta, morto dopo morto. Tanto a rischiare sono gli spendibili “minots”.  

Le forze di polizia e la magistratura appaiono spiazzate. La procuratrice della Repubblica Dominique Laurens, affranta, ha dichiarato alla stampa: “Stiamo entrando in una dinamica particolarmente inquietante, che proseguirà nei prossimi mesi. Finché non vi sarà un rigido isolamento di alcuni detenuti oggi in prigione le guerre continueranno”. Insomma, per il magistrato è tempo d’introdurre nell’ordinamento giuridico francese qualcosa che assomigli al tanto criticato dai giuristi d’oltralpe – si pensi alle motivazioni addotte per salvare i terroristi nostrani rifugiati in Francia – al carcere duro fissato dal 41 bis italiano. Meglio tardi che mai.

A fare le spese di tanta violenza, di tanto orrore sono i cittadini delle periferie multietniche e degradate, zone ormai fuori controllo dove la polizia – ricordate il film Bac Nord di Cédric Jimenez che tanto fece discutere la Francia nel 2020? – osa appena affacciarsi. Gli abitanti sono terrorizzati e solo pochi coraggiosi hanno avuto la tempra di manifestare davanti alla municipalità di Castellas, uno degli epicentri dello spaccio, per chiedere un intervento della politica e delle forze dell’ordine.

Ulteriore paradosso. Ad appoggiare la protesta, sono a giorni alterni, la sinistra radicale di La France Insoumise e il Partito Comunista Francese e i lepenisti del Rassemblement National. Con tinte e toni differenti, tutti chiedono che la mattanza abbia fine e che lo Stato si faccia finalmente sentire.

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