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Mentre in Ungheria la comunità rom sta timidamente insorgendo contro il governo di Viktor Orban, accusato di portare avanti un’agenda antiziganista, scontrandosi però con il muro di diffidenza e ostilità della maggior parte dell’opinione pubblica e della realtà politica, anche in Romania si segnalano sollevazioni dirette contro gli attori del mondo istituzionale colpevoli di assumere posizioni ritenute razziste e discriminatorie.

C’è un filo conduttore a legare gli eventi che stanno avendo luogo da Budapest a Bucarest: in entrambi i paesi la comunità rom dovrebbe trasformarsi da minoranza a maggioranza nei prossimi decenni e negli ultimi anni sembra avere preso coscienza della rivoluzione demografica in corso, iniziando a rivendicare i propri diritti, a rivendicare maggiore spazio pubblico e chiedere più opportunità.

Le proteste a Târgu Mureș

Târgu Mureș, città di 145mila abitanti situata nel cuore della Transilvania storica, ottobre dell’anno scorso. Il sindaco, Dorin Florea, si lamenta pubblicamente della propensione della comunità rom ad avere famiglie numerose, eccessivamente numerose a suo dire, esprimendo perplessità in relazione al fatto che i bambini verrebbero utilizzati come “fonte di reddito“, assicurando alle famiglie la possibilità di vivere per anni grazie agli aiuti sociali.

Aresel, un movimento civico che si occupa di questioni rom, organizza una prima protesta, il 17 ottobre, davanti al municipio. L’evento si rivela un successo: accorrono in centinaia, dalla città e dai dintorni, chiedendo le scuse e le dimissioni del sindaco. Come evidenzia Nicu Dumitru, il portavoce del movimento, si è trattato di “un giorno storico, i rom, per la prima volta negli ultimi 30 anni, sono usciti in strada per dire la loro, perché questo tipo di dichiarazioni non sono ammissibili nella Romania del 21esimo secolo”.

Il sindaco rifiuta di scusarsi con la minoranza etnica e rincara la dose, spiegando che in città, che ospita una delle comunità rom più numerose del paese, da quando è stato eletto ha dedicato molta attenzione ai loro bisogni, alle loro necessità, attraverso progetti di edilizia popolare, miglioramento delle infrastrutture esistenti, mense popolari, iniziative per la scolarizzazione e per l’inclusione nel mercato del lavoro e nella società, ma senza alcun risultato: la maggior parte dei rom continuerebbe a preferire le abitazioni fatiscenti, e le agenzie municipali continuerebbero ad essere sommerse di richieste per gli alloggi popolari e per gli assegni di maternità da parte di 12enni e 13enni gravide.

Florea arriva a proporre, sulla sua pagina Facebook, di introdurre dei parametri legali che, se non soddisfatti, impediscano alle coppie di formare una famiglia, come ad esempio la volontà di ricercare attivamente lavoro, di voler vivere in abitazioni agibili, di voler assicurare ai figli un ambiente economico accettabile, fissando inoltre un’età minima per diventare genitori, alla luce della tendenza dei rom a formare famiglie in età pre-adolescenziale.

Le proteste continuano, si allargano: 100 manifestanti diventano 500, poi superano quota 1000. Piccole cifre, certamente, ma si tratta comunque della prima volta che la comunità rom si mobilita nel paese e, soprattutto, che dà luogo ad una mobilitazione continua. I manifestanti chiedono un intervento del presidente, Klaus Iohannis, e al grido di ribellione si unisce anche la più alta autorità del mondo rom, non riconosciuta legalmente da alcuno stato, il re Dorin Cioabă.

La mobilitazione ha successo: il 21 gennaio, Florea, viene chiamato per un’udienza dal Consiglio Nazionale Contro le Discriminazioni, e quindi ritenuto colpevole di discorso d’odio e condannato al pagamento di una multa di 10mila lei (circa 2mila euro). Si tratta di un altro traguardo storico: è la prima volta che un politico di alto profilo, quale è il sindaco di una grande città, viene ritenuto responsabile di discorso d’odio e condannato per questo, è il segno che qualcosa sta cambiando nella società e nella politica e che i rom non possono più essere ignorati, tantomeno denigrati.

Il futuro demografico rumeno: un’incognita

Nei Balcani sta avendo luogo lo spopolamento più grave e rapido del pianeta e la Romania è il secondo paese più colpito dal tremendo inverno demografico, dietro la Bulgaria. Fra il 1992 ed il 2019 la popolazione è diminuita di quattro milioni, passando da quasi 23 milioni di abitanti a circa 19 milioni. La crisi è tremenda: 38mila persone in meno fra gennaio e luglio dell’anno scorso, a causa dell’emigrazione o per il divario fra nascite e decessi, e fra il 2017 ed il 2018 il tasso di spopolamento è aumentato del 33%.

E mentre la popolazione autoctona si riduce a ritmi serrati, fra emigrazione all’estero e bassa fertilità di chi sceglie di restare, ed entro il 2050 si stima che il paese sarà abitato da circa 16 milioni di persone, la comunità rom continua ad aumentare, pur registrando anch’essa un forte movimento migratorio verso altri paesi. Ufficialmente, nel paese sono censiti circa 619mila rom (dati del 2011), ma secondo la Divisione Rom e Nomadi del Consiglio d’Europa, l’Agenzia Nazionale per i Rom e il Centro di Ricerche Demografiche (CRD) “Vladimir Trebici”, la cifra sarebbe verosimilmente più alta: circa 3 milioni. Come nel caso ungherese, la discrepanza fra i dati governativi e non governativi è legata al fatto che i rom tendono a nascondere la loro identità etnica in sede di censimento.

Il direttore del CRD, Vasile Gheţău, che da oltre dieci anni monitora l’andamento demografico del paese e procura alle forze politiche possibili rimedi alla de-natalità, restando inascoltato, se le attuali condizioni dovessero protrarsi nel tempo, i rom rappresenteranno con elevata probabilità il 40% della popolazione totale entro il 2050, surclassando gli autoctoni nei venti anni successivi. Infatti, mentre il tasso di fecondità della rumena media è al di sotto dell’1,2 figli per donna da più di venti anni, quello della donna rom è stabile a 3 figli per donna.

La Romania del 2050 sarà molto diversa da quella di oggi: i rumeni saranno pochi e, soprattutto, anziani. Sempre secondo il CRD, gli over-65 rappresenteranno il 31% della popolazione entro il 2030, in aumento dal 17% del 2011. La situazione fra i rom, invece, è radicalmente diversa: soltanto il 3% della comunità nazionale ha più di 65 anni, mentre il 47,3% ha meno di 20 anni.

Come nel resto della penisola balcanica, il riferimento è in particolare alla Bulgaria, anche in Romania la rivoluzione demografica non sembra destinata ad avvenire in maniera pacifica, perché i rom vivono nelle stesse condizioni di emarginazione ed esclusione che sperimentano altrove, sostanzialmente ammassati in ghetti etnici, nelle periferie delle grandi città. Ferentari è il caso più emblematico di questa realtà: si tratta di un quartiere-dormitorio nella parte meridionale della capitale, Bucarest, popolato da quasi 100mila persone, per la stra-grande maggioranza di etnia rom. Ferentari è il simbolo dell’integrazione mancata e della profonda divisione che separa rumeni e rom, concentrando una serie di record negativi relativamente ai tassi di crimini violenti, disoccupazione, povertà, tossicodipendenza, malattie sessualmente trasmissibili, fra le quali l’hiv-aids.

Nel lontano novembre 2006, la compagnia nazionale dell’elettricità, Electrica, decise di interrompere la luce in diverse aree del quartiere per via dei mancati pagamenti e degli allacciamenti abusivi. Fu il casus belli della più grave rivolta urbana, di stampo etnico, avvenuta nella capitale. Da allora, nulla è cambiato: Ferentari continua ad essere un ghetto in cui proliferano criminalità e malattie, la tensione con il resto della capitale continua ad essere alta e la possibilità di nuovi disordini è sempre dietro l’angolo.

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