Nel 2020 l’arrivo inaspettato della pandemia ha generato, oltre che l’allarme sanitario, anche una vera e propria psicosi tra la popolazione. Nel 2021, nonostante la situazione sanitaria sia rimasta pressoché simile, l’approccio psicologico dei cittadini nei confronti del virus è notevolmente cambiato. È forse subentrata l’abitudine a questo stato d’emergenza?
Lo “stop” del primo Dpcm
9 marzo 2020: una data che rimarrà nella storia e che nessuno di certo dimenticherà. Quella sera l’allora presidente del consiglio Giuseppe Conte ha tenuto incollata allo schermo tutta Italia annunciando il Dpcm #iorestoacasa, che sanciva per la prima volta il lockdown nazionale. Una misura necessaria dal momento che il coronavirus, come un fulmine a ciel sereno, si era impadronito della quotidianità di tutti seminando contagi e morte. Chiusi i confini regionali, chiuse le scuole, gli uffici, le attività commerciali, i servizi di ristorazione, le palestre, i cinema: chiuso tutto. Sono rimaste aperte solo le attività necessarie a fornire i servizi essenziali. Da nord a sud, l’Italia è stata tutta rossa fino al 4 maggio. Spostamenti sul territorio nazionale e, al di fuori dalle proprie abitazioni, sono stati concessi solo per motivi di salute, necessità e per lavoro. Sotto quest’ultimo profilo, per evitare il più possibile i contatti fra le persone è stata introdotta la formula innovativa dello smart working. Questo modello ha dato la possibilità di lavorare da casa consentendo di portare avanti numerose attività.
D’altra parte invece alcuni settori economici ed imprenditoriali hanno subito una forte battuta d’arresto contribuendo ad aumentare le categorie di nuovi poveri. E chi aveva mai sentito prima parlare di Dad? Questa un’altra novità che ha riguardato il mondo della scuola. La Dad, acronimo di didattica a distanza, ha consentito agli studenti di poter proseguire le lezioni da casa e sostenere anche esami. Impossibile dimenticare tutte le lauree a distanza di quel periodo. Dal 4 maggio poi la luce in fondo al tunnel: il lockdown ha lasciato spazio a misure restrittive meno rigide consentendo per la prima volta l’incontro tra familiari fino ad allora vietato. Il 18 maggio sono state riaperte tutte le attività.
La paura in quei mesi
Abituarsi all’idea di un nemico invisibile capace di infettare e far morire diverse migliaia di persone non è stato per nulla facile. Non lo è stato nemmeno quello di adeguarsi ad un Dpcm che stabiliva e imponeva comportamenti e stili di vita quotidiani del tutto nuovi. Ma la paura, l’apprensione generata dal coronavirus ha fatto si che tutti, seppur in modo differente, si approcciassero ai comportamenti richiesti in modo esemplare. Quando lo scorso anno vigeva la zona rossa le strade erano completamente deserte. Anche i più grandi centri urbani, erano vuoti. Le immagini dei droni che riprendevano gli spazi vuoti di ogni città sono storia. Si sapeva ben poco del coronavirus e, per precauzione, si rimaneva rigorosamente a casa temendo di incontrarlo fuori allo stesso modo di come essere colpiti inaspettatamente da un missile.
Questo è stato anche uno dei motivi per il quale sono diminuite le presenze ai supermercati da una parte ed incrementate le consegne a domicilio dall’altra. Ordini on line, facilitati in alcuni casi anche da apposite App, hanno consentito alla gente di restare a casa in attesa di sapere qualcosa in più sul coronavirus, ovvero come esso si propagasse, come fosse necessario difendersi, cosa fare nel momento in cui si avvertissero certi sintomi. Non è stato semplice pensare di poter convivere con il virus portando avanti alcune semplici abitudini di sempre, proprio come fare la spesa. Non è stato nemmeno semplice approcciarsi alle riaperture di maggio. In quei momenti l’impatto psicologico del ritorno alla quasi normalità è stato forte e ha richiesto momenti scanditi in modo graduale. Oggi viviamo ancora in una fase critica, ma gli atteggiamenti di convivenza con il coronavirus sono completamente cambiati.
L’arrivo della seconda e terza ondata
Soltanto in estate la popolazione, spinta anche dai numeri dei contagi molto più bassi, è tornata realmente alla normalità: “Ho avuto molti più clienti degli altri anni – ha dichiarato su InsideOver Marco, gestore di uno stabilimento balneare siciliano – era come se la gente volesse recuperare il tempo perso a casa”. Si è trattato però solo di un fuoco di paglia: ad ottobre i dati sono tornati ad essere preoccupanti, ha preso piede la seconda ondata e, con essa, sono arrivate nuove disposizioni anti contagio. In particolare, con il Dpcm del 3 novembre il governo Conte ha disegnato l’Italia a colori. È cambiato in quel frangente l’approccio politico all’emergenza: non più un intero Paese chiuso nelle abitazioni, bensì limitazioni locali in base alla diffusione del virus nei vari territori.
L’unica misura valevole per tutto il territorio nazionale, ha riguardato il coprifuoco imposto alle 22:00. Per il resto, si è andato avanti tra zone rosse, arancioni e gialle. Anche lì dove la colorazione è stata più scura, non si sono però viste le stesse scene osservate durante la prima ondata. Le città, seppur in modo diverso rispetto dall’era pre Covid, hanno continuato a vivere. In tanti sono tornati negli uffici, molti, a prescindere dalla possibilità o meno di sedersi in un locale, non hanno voluto rinunciare anche ad una semplice passeggiata. La gente, in poche parole, non ha concepito l’arrivo delle nuove ondate di contagio come una vera e propria guerra. Lo si è visto ad esempio l’8 dicembre scorso, quando le vie dello shopping di Milano erano piene di cittadini tornati a godersi la metropoli meneghina al primo giorno di zona gialla.
La differenza nella percezione del pericolo
Il termometro della differenza dell’umore della popolazione tra la prima ondata e i primi mesi del 2021, lo si può vedere nel modo in cui sono state vissute le festività pasquali. L’anno scorso la settimana Santa è caduta in pieno lockdown nazionale. I dati in quei giorni parlavano di oltre 4.000 persone ricoverate per Covid in terapia intensiva. Nessuno è uscito da casa, si era ancora nel pieno del periodo in cui, specialmente nel pomeriggio, l’unica socialità era data dall’affacciarsi in balcone. Quest’anno al 31 marzo i pazienti nelle terapie intensive erano circa 3.700. Dati non così differenti rispetto a 12 mesi prima. Eppure la Pasqua è stata vissuta in modo molto diverso. I fedeli sono potuti andare in Chiesa e, seppur tra limitazioni importanti, in pochi hanno rinunciato a un pranzo almeno con gli affetti più cari.
Tra i cittadini non è emerso quel grado di preoccupazione ben evidente nella primavera del 2020: “Lo abbiamo notato anche nel nostro campo – confessa Chiara, consulente finanziaria per una nota banca italiana – è come se le persone si fossero abituate a questo stato di emergenza. Lo si vede dalla spesa che fanno gli italiani da diversi mesi a questa parte”. Gli investimenti, ha spiegato la consulente, sono virati verso settori dove la popolazione ha dirottato le spese dopo il primo lockdown: “Gli italiani comprano sempre più cibo da asporto e guardano in misura maggiore all’intrattenimento online”. Un segnale di come ci si sta abituando a una nuova normalità, scandita dall’emergenza: si esce appena possibile, ma si organizza lo svago e il tempo libero anche a casa. Nella speranza magari di distrarsi dai bollettini e dalle tristi notizie che da un anno riempiono la quotidianità.