Centri commerciali pieni di clienti spensierati, ristoranti e locali presi d’assalto da cittadini festanti, vagoni della metro esauriti in ogni ordine di posto, strade gremite di persone, auto incolonnate su viali a tre corsie. No, questi non sono scorci di vita quotidiani di qualche anno fa, prima che la pandemia di Covid-19 sconvolgesse la nostra esistenza. Questo è quello che sta succedendo adesso in Cina, nell’unico Paese al mondo dove il nuovo coronavirus sembrerebbe essere soltanto un lontano ricordo. I dati pubblicati dall’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) parlano chiaro: nella Repubblica popolare cinese da gennaio a oggi si contano poco meno di 92mila casi e meno di 5mila morti. Giusto per fare un confronto, in Italia, nello stesso lasso di tempo, si sono accumulati quasi 600mila casi e circa 22mila decessi. E così, a grandi linee, in tutto il resto d’Europa. Gli Stati Uniti, invece, sono addirittura il Paese più colpito al mondo con mezzo milione di morti e nove milioni di casi.
La nuova normalità
C’è chi non crede ai dati diffusi dalla Cina, sostenendo che Pechino stia barando. Eppure le testimonianze che arrivano da chi vive oltre la Grande Muraglia confermano il trend raccontato dai numeri. Mentre l’Occidente è in ginocchio, travolto da una seconda ondata pandemica che si preannuncia più cruda della prima, la popolazione cinese è tornata a respirare. In tutti i sensi, visto che l’obbligo di indossare la mascherina è decaduto praticamente in ogni provincia. Le uniche eccezioni in cui i cittadini sono chiamati a munirsi di dispositivi di protezione individuale sono i mezzi di trasporto pubblici, come treni e aerei (non sempre, dipende dalla città). Per il resto, viso scoperto e tanti sorrisi anche a Wuhan, la prima città a essere stata messa in ginocchio dal virus. Stesso discorso per il distanziamento sociale: la norma non esiste più. All’interno dei ristoranti non ci sono posti vuoti tra un cliente e l’altro. Tutti, a Shanghai così come a Shenzen, siedono allo stesso tavolo. Proprio come eravamo abituati a fare anche noi prima dello scoppio della pandemia. Certo, sono ancora in vigore alcune restrizioni, in primis l’isolamento dal resto del mondo del Paese e il severo filtraggio dei rarissimi viaggiatori provenienti dall’estero a cui è consentito entrare in Cina. Ma le rimanenti misure di sicurezza sono state talmente allentate da essere ormai diventate parte integrante della routine quotidiana di 1,4 miliardi di persone.
App e tracciamento
Attenzione, questo non vuol dire che in Cina sia scattato il liberi tutti. Le autorità continuano a monitorare in maniera capillare tutto quello che accade nel Paese. Tutto ciò è in parte possibile grazie al sistema politico cinese, distante dalle democrazie liberali occidentali. Nelle fasi più dure dell’epidemia il Partito Comunista cinese ha mobilitato le sue cellule locali, attivando così una sorveglianza porta a porta capace di coprire ogni quartiere di ogni città. Il governo si è poi affidato alla tecnologia, ed è proprio questo uno dei fiori all’occhiello del modello cinese. Scendendo nel dettaglio, Alipay Health Code, un’applicazione per cellulare, consente alle autorità di tracciare gli spostamenti dei cittadini e avvisarli con un QR code sul loro stato di salute (lo stesso codice che dovrà poi essere mostrato per entrare nei centri commerciali, nei siti turistici e via dicendo). Tre sono le luci del semaforo sanitario cinese: il codice verde viene assegnato a tutti coloro che non hanno viaggiato in zone a rischio, il giallo per chi è potenzialmente entrato in contatto con infetti, il rosso per chi non può uscire e deve sottoporsi alla quarantena.
Ossessione tecnologica
Tutto è lecito per sconfiggere il Demone Covid. Per questo la tecnologia, in Cina, si è spinta oltre ogni limite immaginabile. Reuters ha raccontato due episodi emblematici avvenuti pochi mesi fa. Entrambi riguardano un uomo di Hangzhou, città situata nella parte meridionale del Paese. Il protagonista della nostra storia è appena tornato a casa da un viaggio a Wenzhou, all’epoca dei fatti bollata dalle autorità come zona rossa. Non appena rientrato nella propria abitazione, l’incredulo signore viene contattato dalla polizia locale. L’ordine è chiaro: non uscire di casa, controllare la temperatura corporea e avvisare in caso di febbre o sintomi. Senza che l’uomo comunicasse alcunché, gli agenti sapevano già tutto riguardo i suoi spostamenti. Le numerose telecamere di videosorveglianza sparse per la Cina hanno registrato i dati della targa del soggetto, la polizia è entrata in possesso di questi dati e ha fatto partire la segnalazione. Lo stesso uomo, stanco dell’isolamento nel proprio appartamento, prende coraggio ed esce di soppiatto per una passeggiata. In pochi minuti viene contattato dal suo datore di lavoro. Ancora una volta il volto del papabile infetto è stato registrato dalle telecamere con riconoscimento facciale.
E la catena di controllo si è subito messa in moto. Ecco: uno scenario del genere aiuta moltissimo nella lotta al virus. Ma dall’altro lato è pur vero che la Cina ha pagato un prezzo altissimo per far tornare il suo popolo alla normalità. In particolare sono state sacrificate la privacy e ogni aspetto collegabile all’individualismo (non che prima la situazione fosse diversa). E tutto in nome del bene comune. Il New York Times, in merito alla app di tracciamento, ha definito l’approccio cinese “un esperimento di massa per regolamentare le vite dei cittadini”. Impossibile, dunque, pensare di replicare il modello cinese in un’altra nazione, a maggior ragione in una democrazia occidentale.
A caccia di positivi
In ogni caso le testimonianze raccolte fanno passare il modello cinese come vincente, al netto di un lato oscuro che non può essere ignorato. Da un punto di vista sanitario stiamo parlando di un modus operandi che ha portato risultati eccellenti. I nuovi casi quotidiani sono pressoché irrisori, mentre la rapida azione delle autorità nel prendere ogni tipo di decisione (ad esempio sono stati costruiti ospedali dedicati a pazienti Covid in una manciata di giorni) ha stroncato la curva epidemica. La sicurezza ritrovata all’interno delle grandi megalopoli è figlia anche dei milioni e milioni di test a tappeto effettuati da Pechino. Già, perché non appena balza fuori un positivo, le autorità isolano la zona in cui si trova il contagiato, ricostruiscono ogni suo spostamento e tracciano uno per uno i cittadini che vivono nell’area delimitata. Molto spesso, come accaduto a Qingdao e a Kashgar, un’intera città viene mappata nel giro di tre o quattro giorni. E il focolaio evapora come neve al sole in ben che non si dica.