Tutto ha avuto inizio una normale mattina di marzo. James Cole, designer freelance di base a New York, si sveglia con tosse secca e respiro corto. “Ero sdraiato a letto e avevo il fiatone come se avessi appena finito di correre”, racconta. Il coronavirus lo colpisce quando meno se lo aspetta, ma nelle modalità di cui tutti ne parlano. “Ho avuto qualche leggero segnale, dopo una serata a casa con i miei coinquilini”. Poi al mattino dopo i sintomi sono esplosi: “Ho provato a fare una doccia fredda, ma ho iniziato a stare peggio e ho capito che qualcosa non stesse andando per il verso giusto”. Così arriva la chiamata al 311.
Poi la visita all’Urgent Care, l’ambulatorio convenzionato con la sua assicurazione sanitaria, più vicino: “Mi hanno fatto il test ed è risultato positivo al COVID”, spiega James. Che ha una copertura privata ma, nonostante questo, ha dovuto pagare la singola visita medica perché fuori dal suo piano: 40 dollari. “Ma ora ho paura di eventuali extra, anche se mi hanno assicurato che il test fosse gratuito”.
I “se” hanno un peso
A vivere con timori come questi, nelle settimane in cui gli Stati Uniti sono diventati l’epicentro mondiale della pandemia coronavirus, sono sempre più americani. Alcuni fortunati come James, che è stato rimandato a casa subito dopo il tampone, che si sta curando da solo con sintomi tutto sommato lievi e non ha avuto bisogno di essere ricoverato in un ospedale. Altri molto meno fortunati di lui – quasi 42mila secondo i dati della Johns Hopkins University aggiornati a lunedì sera – che invece sono stati accettati nelle strutture ospedaliere del Paese per essere curati. E ora stanno facendo la conta dei giorni, se dimessi da quegli ospedali, con una speranza: di non vedersi arrivare bollette a sorpresa dalle compagnie assicurative, da qui a qualche settimana.
Il dibattito legato ai costi delle cure COVID è stato centrale fin dai primi momenti della crisi che sta mettendo in ginocchio il Paese. In un sistema come quello americano, dove ricevere cure viene considerato un servizio e non un diritto, una pandemia di queste dimensioni avrebbe potuto – e potrebbe avere – delle conseguenze significative per molti. Non solo sulla salute, ma anche sui portafogli. Per questo la politica americana si è subito concentrata per trovare delle soluzioni.
Da una parte i Democratici, che hanno spinto in Congresso per l’accesso gratuito ai tamponi e per l’assistenza ai non assicurati, inserendolo nella mastodontica manovra economica da 2mila miliardi di dollari, il CARES Act approvato in via definitiva dalla Camera il 29 marzo.
Dall’altra l’amministrazione Trump, con il Presidente stesso in prima persona che ha annunciato di voler utilizzare parte dei finanziamenti del CARES Act per contribuire a coprire i costi del trattamento COVID dei pazienti non assicurati. A una condizione, però: che l’ospedale accetti il rimborso del governo, per non addebitare al paziente non assicurato il conto.
Il fattore 100 miliardi
È su questo se e su molti altri, che passa il destino di diversi pazienti COVID non coperti da assicurazione negli Stati Uniti. Se infatti il fondo promesso è stato già fissato ed è di 100 miliardi di dollari, le domande e i dubbi permangono sulle modalità e sui tempi, ma anche sulla quantità di ospedali che riusciranno ad avere accesso a quel fondo, come ha evidenziato un recente articolo del portale online specializzato KFF. Ad aprile inoltrato, infatti, non è stato ancora chiarito in quanto tempo verrà distribuito il denaro agli ospedali per coprire i costi delle cure di chi non se lo potrà permettere: preventivo sulla base delle previsioni o posteriore sulla base dei bisogni? E si deve ancora capire se e come gli ospedali nelle aree rurali e suburbane del Paese rientreranno all’interno della platea a cui i 100 miliardi si rivolgono. Mentre i dubbi sui criteri rispettati dal dipartimento della salute per la distribuzione dei fondi rimangono.
In ogni caso, sembrano molto lontani i primi giorni della diffusione del coronavirus, quando il Time riportò la storia di tale Danni Askini, un’americana che ebbe la sfortuna di ammalarsi tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo, quando ancora il Presidente Trump accostava il coronavirus a una fake news, e si ritrovò una bolletta da pagare di quasi 35mila dollari dopo essere risultata positiva al coronavirus. “A me è andata meglio perché mi è stato diagnosticato in una seconda fase, quando c’era maggiore consapevolezza del virus nel Paese”, spiega ancora James, che non ha ricevuto a Brooklyn un trattamento troppo più complesso di quello che Danni Askini ricevette a Boston.
Coperta corta
Episodi come quello di Boston però fanno capire quanto la coperta possa essere corta e quanto il costo delle cure sia potenzialmente invadente. La strategia dell’amministrazione Trump, per una volta in sintonia con il Congresso, è sembrata chiara, seppur non ancora definita: provare a coprire gli spazi, attaccandoli da due direzioni. Da una parte con i 100 miliardi messi a budget nel CARES Act per coloro che non hanno un’assicurazione, circa 28 milioni in America. Dall’altra con una complicata strategia di negoziazione con le compagnie assicurative private, come CVS Health Corp, CIGNA e Humana, che non a caso nelle ultime settimane hanno annunciato per i loro clienti (alias pazienti) il taglio di tutti i cosiddetti copay – gli extra non coperti dai singoli contratti assicurativi – nell’ambito delle cure e del trattamento COVID. L’obiettivo espresso è quello di evitare bollette a sorpresa ai danni dei cittadini americani alle prese con la pandemia.
“Il problema però è che spesso queste assicurazioni sono legate a dei contratti di lavoro, quindi non sono loro a decidere per prime”, ha spiegato a CNBC Karyn Schwartz della Kaiser Family Foundation. Anche perché la platea è ampia: secondo i dati della fondazione, si parla di 177 milioni di americani, di cui 20 che dispongono di un accordo individuale con assicurazioni private come CVS Health Corp, CIGNA e Humana, e ben 157 la cui copertura sanitaria è legata al loro posto di lavoro. Con il propagarsi della crisi, però, molti di quei posti di lavoro stanno sparendo. E quando saltano i posti di lavoro, di conseguenza, saltano anche le coperture assicurative.
“È come giocare alla lotteria”
E nel mezzo, certo, ci sono anche coloro che usufruiscono dei servizi Medicare tradizionali, destinati a tutti gli over 65 e giovani con disabilità. Chi non ha ulteriori servizi di copertura supplementare, lo hanno evidenziato diversi report in questi giorni, rischia di ritrovarsi scoperto per i costi extra di permanenza nelle strutture. Sono 6.1 i milioni di americani in questa condizione e un recente studio di HealthSystemTracker.org ha evidenziato come il costo di tre giorni di ospedale sotto trattamento COVID, usufruendo di un ventilatore equivalga a quello 22.6 giorni standard in ospedale per altri trattamenti tradizionali. Ciò significa che a livello proporzionale, se applicati, i costi potrebbero gonfiarsi facilmente.
“Non vorrei essere uno di loro”, dice ancora James. “Nonostante gli sforzi, è come giocare alla lotteria: devi sperare di vincere”.