All’inizio dell’epidemia, il Giappone, insieme alla Corea del Sud, figurava tra gli stati più colpiti dalla diffusione del Covid-19 proveniente dalla Cina. A distanza di un paio di mesi, però, i casi registrati sono “solo” 639, con 16 morti e oltre 100 guariti. In tutto il Giappone si contano meno casi che in Svizzera, per fare un esempio. E meno casi di quelli confermati a bordo della Diamond Princess, la nave da crociera che rimase bloccata per giorni nel porto di Yokohama con 691 persone infettate e quattro passeggeri morti. Uno scenario per molti versi rassicurante, se paragonato a quelli di Italia, Francia, Germania, Spagna e la stessa Corea del Sud (dove i casi accertati sono quasi 8mila ma i morti “solo” 66). Eppure la diffusione del coronavirus sta creando enormi problemi politici al primo ministro Abe Shinzo, che sta accusando un crollo dei consensi ed è finito sotto accusa per aver sottovalutato l’epidemia sin dall’inizio. Gli oppositori politici sostengono che i tanti anni al governo (ben sette, lo scorso novembre è diventato il primo ministro più longevo nella storia del Giappone) abbiano azzerato le iniziative interne da parte dei ministri e dei consiglieri, e soprattutto che non essendo certa la sua ricandidatura a presidente del Partito liberal democratico stia giocando una sorta di “all-in” pokeristico legato alle Olimpiadi di Tokyo, che dovrebbero tenersi a luglio, ma a questo punto l’uso del condizionare è d’obbligo.

Nel frattempo il governo sta da un lato preparando un pacchetto di stimoli all’economia da quasi 15 miliardi di euro per sostenere le imprese e le famiglie messe in ginocchio dall’emergenza coronavirus (prestiti a tasso zero garantiti dallo stato, 35 euro al giorno per gli autonomi costretti in auto quarantena, interventi sui tassi da parte della Banca del Giappone per evitare che le imprese finiscano in crisi di liquidità etc.), dall’altro però non riesce a varare misure davvero drastiche per bloccare il paese e, complici gli aspetti culturali intrinseci di una società fortemente dedita al lavoro e che considera gli anziani (i principali esposti al pericolo Covid-19) una sorta di zavorra sociale, sembra per ora voler assecondare una sorta di “laissez faire” sociale.

Ne abbiamo parlato col dott. Piero Carninci, uno dei più grandi esperti di genomica al mondo impegnato dal 1995 nel centro di ricerche Riken in Giappone.

Probabilmente per via della vicinanza con la Cina e del massiccio interscambio di lavoratori e turisti tra i due Paesi, il Giappone è stato tra i primi ad essere colpito dai focolai di Covid-19. Ora l’aumento dei contagi sembra bloccato. Ci aiuta a ricostruire l’evoluzione, anche temporale, del fenomeno?

Ovviamente il flusso di persone ha aiutato, ma ricordiamoci che l’epidemia si è propagata soprattutto durante il capodanno cinese, periodo in cui molti cinesi viaggiano in tutto il mondo. Da notare che il focolaio nella provincia dell’Hubei rimane comunque relativamente ristretto nella Cina. Ci sono aziende giapponesi che producono in Cina vicino al focolaio e non sono mancati episodi di viaggi, fughe improvvise etc… fin dall’inizio. Senza una severa politica di controllo e quarantena per chi è rientrato precipitosamente dalla Cina non è stato possibile per nessuno limitare il contagio. Per la cronologia accurata, stanno lavorando in molti.

Quali sono le misure che ritiene siano state più efficaci tra quelle adottate dal Governo Abe?

Imporre immediatamente una quarantena di 14 giorni a chi proveniva dalla Cina, o era stato in contatto con chi veniva dalla Cina. Un approccio molto rapido, ben comunicato e attuato in modo relativamente tempestivo nelle policy aziendali o quelle del mio istituto. Ci sono però anche delle falle nel sistema…

Ad esempio?

Le scuole sono state interrotte fino a fine marzo, ma i bambini sono ancora accettati al doposcuola, oppure spendono ore al parco a giocare con gli amici. La sospensione della scuola spinge molti genitori a stare a casa e lavorare da remoto, il che ha aiutato un po’ a ridurre la concentrazione umana nelle metropolitane. Ma purtroppo questo è solo parzialmente efficace. Molte aziende hanno accettato il principio del telework, ma l’autorizzazione sta nelle mani del capo ufficio, che spesso preferisce il controllo diretto sui dipendenti e avere tutti in ufficio. In generale forse appena il 10% delle persone lavora da remoto.

Che altro?

Aspetti culturale come il senso di responsabilità verso i colleghi. La religione del non recare danno ai colleghi a qualunque costo tipicamente giapponese. Se molti qui sono pronti a morire per i lavoro, cosa vuole che sia per loro un virus che uccide “solo” il 3% e per lo più persone anziane, malate, debilitate… la pressione del dovere aziendale è molto più sentita quotidianamente. Questo può costare caro se non ci si ferma veramente.

Eppure nel caso della Diamond Princess è stato usato il pungo di ferro, criticato da molti…

Non c’era molta scelta. Un’alternativa sarebbe stata quella di testare, mettere in quarantena separatamente, e ritestare prima di rilasciare gli ospiti della nave. Questo avrebbe prevenuto contagi sulla nave e alcuni decessi. Il problema era però relativo alle strutture che avrebbero dovuto ospitare le persone. Strutture che non erano pronte. In un albergo i contagi sarebbero avvenuti comunque? Come si potevano gestire i passeggeri separandoli?
Di certo una critica procedurale da muovere è che i passeggeri sani non sono stati ritestati prima di essere rilasciati.

Tutto considerato, quindi, pensa che in Giappone ci sia una sottostima dei casi? O che vengano effettuati pochi tamponi?

È chiaro che c’è una sottostima. Fonti autorevoli dicono che l’efficacia della Pcr (tecnicamente “reazione a catena della polimerasi”, che si misura col semplice tampone, Ndr) è del 60-70%. Il 30-40% dei contagiati risulta negativo, probabilmente perché il kit utilizzato è nuovo per molti laboratori. In più ci sono molti asintomatici che non vengono testati (proprio perché portatori e asintomatici). Le istruzioni datemi al momento del rientro dall’Italia alcuni giorni fa sono state “misurati la febbre ogni giorno e se vai al di sopra del 37.5, chiama le autorità”. È chiaro che questa politica non tiene in conto gli asintomatici e non tiene in conto che il virus è presente prima della manifestazione della malattia.

Com’è organizzato il Sistema Sanitario per poter fronteggiare la crisi?

La sanità in Giappone gode di un supporto pubblico, ma il sistema è frammentato tra ospedali pubblici (cittadini, prefetturali, nazionali) e moltissimi privati, che si parlano poco e non condividono i dati. Alcuni ospedali privati rifiutano sospetti casi di coronavirus per “non recare una cattiva reputazione all’ospedale” e non rallentare il business degli altri pazienti. L’unica cosa che aiuta sono le informazioni accurate fornite sui siti web delle singole città o del ministero della Salute. Anche se chiaramente sono principalmente accessibili a chi padroneggia bene il giapponese.

Da quello che ci dice però non sembra che i giapponesi abbiano cambiato molto le loro abitudini, anche perché ad esempio l’uso di mascherine protettive è una norma quasi “culturale” in Giappone…

L’uso delle mascherine è sistematico. Ho postato un tweet con una foto per la prima di campionato di calcio, (poi sospeso fino ad aprile) presa sulla tribuna centrale, con 99,9% degli spettatori con la mascherina. Forse questo sta facendo la differenza, oltre alla qualità delle mascherine stesse. È un’ipotesi. Un’altra cosa: per i giapponesi il contatto fisico, fatto di abbracci e baci, è da sempre molto limitato. Non si danno nemmeno la mano, semplicemente si inchinano ad un metro circa l’uno dall’altro (a meno che non si scambino i biglietti da visita). Questo è sicuramente d’aiuto. Tuttavia, a parte la cancellazione di eventi sportivi, le scuole chiuse e l’invito ad usare il telelavoro per chi può, ci sono ancora milioni di persone impacchettate ogni giorni sui treni, shopping center pieni e gente che va in giro normalmente. Sembra la quiete prima della tempesta. Ovviamente spero di sbagliarmi. La gente deve capire che deve stare in casa. I giapponesi sono molto obbedienti e lo farebbero se ricevessero istruzioni più stringenti che però non arrivano. Il governo dovrebbe prendere misure più drastiche, ma pare che la legge non permetta di ordinare chiusura di aziende, centri commerciali, etc. a meno che non si tratti di un’emergenza nazionale. Spesso parlo con chi sta elogiando il sistema giapponese (ma anche ieri abbiamo avuto un +10% di casi accertati). I conti si fanno alla fine, stiamo attenti.

Il vero obiettivo di Abe, oltre a stimolare l’economia, è salvare le Olimpiadi. Pensa sia possibile?

È la grande scommessa del governo. Che però è proprio una scommessa ed è anche miope. Se i contagi vanno fuori controllo, l’economia deve fermarsi momentaneamente comunque. E le Olimpiadi sono perse. Servono advisor che si intendano di epidemiologia. Tutti gli stati partecipanti (e quindi tanti dei turisti che dovrebbero venire) hanno il virus in crescita esponenziale. Si potrebbero limitare le visite agli atleti soltanto, dopo quarantena domestica nel villaggio olimpico per 14 giorni prima di gareggiare (ma per gli allenamenti?) e quarantena anche per i dirigenti. Il tutto dopo screening all’aeroporto e senza pubblico e turisti. A meno che il mondo intero non intervenga improvvisamente come in Cina riducendo notevolmente il problema in 2 mesi. La maggior parte dei Paesi europei, invece, si troverà nella stessa condizione dell’Italia di oggi entro fine marzo. Gli Usa staranno anche peggio, forse, perché il Sistema sanitario è strutturato in maniera completamente diverso. Se tutti bloccassero tutto e subito come in Cina (e ora anche in Italia), a fine maggio si potrà decidere se fare le Olimpiadi. Altri modi di vincere questa battaglia non ci sono e non guardare in faccia la realtà comporterà un costo notevole. A meno che non compaia dal nulla improvvisamente un vaccino…