A Wuhan, in Cina, è ormai notte fonda. Il cuore della megalopoli, un centro urbano di circa 11 milioni di persone, è tornato a battere dopo mesi complicati. Del Covid-19, oggi, non c’è neanche l’ombra. “La situazione è totalmente normale e le attività economiche sono ripartite”, ci ha spiegato Michele Geraci, che attualmente si trova nella provincia dello Hubei, proprio a Wuhan. Anche nell’edificio che ospitava il famigerato mercato ittico di Huanan, dove erano stati riscontrati i primi casi di Sars-CoV-2, tutto, o quasi, ha ripreso a funzionare. Mentre l’Occidente è alle prese con la seconda ondata di coronavirus, la Cina sembrerebbe essere riuscita a sconfiggere il misterioso agente patogeno. E si gode non solo il ritorno alla normalità, ma anche una invidiabile ripresa economica. Quali sono gli ingredienti vincenti della ricetta cinese? La nostra intervista con Michele Geraci, ex sottosegretario del primo governo Conte, responsabile per Commercio Estero ed Investimenti, nonché professore di Economia e finanza alla Nottingham e New York University in Cina, parte proprio da qui.

Professor Geraci, la Cina avrà pure messo una museruola al virus. Ma molti osservatori hanno puntato (e puntano) il dito contro Pechino, reo di essersi mosso in ritardo sulla pandemia. Quanto c’è di vero in queste accuse?

Ritengo ci sia stato un errore di sottovalutazione da parte delle autorità locali di Wuhan, che però si trovavano di fronte a qualcosa cosa che nessuno conosceva. Ci sono stati dei ritardi di comunicazione tra il governo locale e quello centrale e, più in generale, nella comprensione di quanto stava accadendo. Ci sono state incertezza e paura, perché solitamente il governatore locale non ha intenzione di creare problemi a Xi Jinping”.

Ha parlato di più livelli di potere. Che cosa significa?

“Significa che il sistema politico cinese si sviluppa su vari livelli. I governatori locali preferiscono solitamente risolvere i problemi nel loro territorio che non farli emergere a livello centrale, disturbando i loro referenti superiori. Anche nel caso del Covid-19 c’erano vari livelli da considerare. Le comunicazioni dovevano partire da Wuhan e arrivare alla provincia dello Hubei per poi risalire fino a Pechino. Ci sono stati, come detto, degli errori di valutazione della minaccia. Ma è troppo facile constatarlo con il senno di poi, visto che stiamo parlando di un virus sconosciuto. Tuttavia, una volta entrato in gioco, il governo centrale ha reagito”.

In che modo?

In Italia facciamo continui Dpcm. Loro hanno racchiuso tutto in poche pagine: tre decreti a fine gennaio con cui hanno chiuso tutto. Per rendersi conto della differenza, basti pensare che noi abbiamo ragionato e ragioniamo sulle chiusure alle 20 piuttosto che alle 21. Il grande successo cinese è stato quello di chiudere subito e dare indicazioni precise alla popolazione”.

Però la Cina non è una democrazia come l’Italia…

Facciamo questo ragionamento. L’Italia ha scelto Conte, la Cina non ha scelto Xi Jinping. Ci troviamo di fronte a due persone che detengono il comando e che arrivano da due percorsi elettorali differenti: uno elettorale e uno no. Entrambi sono chiamati a fare, a prendere decisioni. Se Xi fa, perché noi non riusciamo a fare? Non è solo questione di democrazia, perché molte leggi sulla pandemia sono uguali tanto in Italia quanto in Cina. Ad esempio chi è contagiato non deve uscire di casa. Ma in Cina controllano che tu non esca, mentre da noi non è così. Se esci – e gli episodi non mancano – al massimo ti fanno una multa. Che poi, molto spesso, tra corsi e ricorsi, non sappiamo neanche se e quando verrà pagata. In Italia non abbiamo una ferrea applicazione della legge. Manca il coraggio politico, un aspetto invece ben presente in Cina”.

In Cina chi ha commesso errori nelle prime fasi della pandemia ha pagato?

Poco fa ero a cena con il nuovo segretario del partito di Wuhan, di recente nomina. Chi ha sbagliato è stato sostituito. Non a caso le proteste iniziali dei cittadini cinesi erano contro il governo locale, e mai contro Xi Jinping”.

Insomma, possiamo riassumere le caratteristiche del modello cinese?

Innanzitutto in Cina c’è un solo partito e il governo non deve inseguire consensi. Non ci sono elezioni all’orizzonte e non vi è la politicizzazione delle mascherine o delle misure restrittive. Dopo di che la comunicazione è molto chiara: non è che chiunque può presentarsi in tv a dire tutto e il contrario di tutto, come ad esempio avviene in Italia. E questo aspetto comunicativo, attenzione, non è solo tipico della Cina, ma anche di Taiwan, Vietnam e altri Paesi asiatici. Un altro fattore riguarda, più in generale, la cultura asiatica. Qui vige il rispetto della società, che viene prima dell’individuo. Poi, altro elemento, i cinesi hanno memoria storica del pericolo, visto che hanno dovuto fare i conti con la Sars“.

I dati hanno dimostrato che il successo sanitario della Cina si è spostato anche nell’economia. Quali sono le cause del recente trionfo economico cinese?

Il governo cinese ha compreso fin da subito che non aveva senso ragionare su cosa dovesse prevalere tra il primato dell’economia e la salvaguardia della salute. Pechino ha capito che le due cose non erano e non sono in contrapposizione. Entrambe devono essere conseguite alla perfezione, altrimenti una delle due zoppica”.

E cosa ha fatto la Cina?

“Subito una chiusura ferrea. Un lockdown di due mesi nello Hubei e in gran parte del Paese. Questo non è stato visto come un voler sacrificare l’economia, quanto piuttosto un tentativo di salvare le vite e aiutare al tempo stesso anche il sistema economico. Così facendo, a maggio la Cina è ripartita. Noi continuiamo a supporre che la salvaguardia della salute sia in contrasto con quella economica. Ma non abbiamo fatto prevalere né il primato dell’economia né la salvaguardia della salute. Abbiamo fatto entrambe le cose in maniera molto annacquata. Con il risultato che dopo un anno ci troviamo in una situazione peggiore di prima”.

In ambito economico la Cina ha centrato un altro discreto successo firmando l’accordo Rcep. Un’altra vittoria economica di Pechino?

“Una vittoria non solo economica ma anche geopolitica. La Cina è riuscita a includere nell’accordo Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda: il primo è un nemico storico di Pechino, il secondo ospita basi americane, gli altri due fanno parte del Five Eyes. Il ragionamento di questi Paesi è stato chiaro: noi facciamo affari con Pechino senza spostare le nostre alleanze geopolitiche. Questa è una vittoria non solo della Cina, ma di tutta l’Asia”.

Guardando all’Europa, gli altri stati europei sono molto più avanti di noi nei rapporti commerciali con la Cina. C’è il rischio di restare indietro?

“Il Memorandum sulla Nuova Via della Seta che ho fatto è nato proprio per colmare il ritardo economico che avevamo (e continuiamo ad avere) con gli altri paesi europei nei confronti della Cina. È stato criticato per motivi geopolitici. Eppure basta guardare al resto dell’ Europa. Merkel e Macron sono molto furbi. Non sputano fango sulla Cina: fanno parlare male di Pechino i vari thinik tank. Sono gli analisti che parlano male dei diritti umani, dello Xinjiang e via dicendo, non loro in prima battuta”.

E l’Italia dove sbaglia?

“Molti dei nostri politici usano una pessima retorica, che va contro interesse del Paese e pro domo sua dei partiti che rappresentano. Rispetto agli altri Paesi europei siamo molto indietro. Tutta l’Europa fa affari con la Cina. Perfino Donald Trump voleva fare più affari con Pechino”.

A proposito di Italia, quali sono i margini di manovra di Roma? Quali le opportunità da sfruttare?

“Ci sono tante strategie. Intanto dobbiamo investire di più in Cina, facendo delocalizzazioni capaci di trainare la nostra catena del valore. In generale, dobbiamo favorire gli investimenti delle nostre aziende al di là della Muraglia. D’altronde è questo quello che fa la Germania con Audi, Volkswagen e con tante altre aziende”.

E questo non accade?

“Siamo come paralizzati: non vogliamo investimenti stranieri in Italia perché temiamo di perdere i nostri gioielli nazionali. Ma non vogliamo neppure fare investimenti all’estero. In un gioco di sistema olistico sono le grandi aziende a rendere grande un Paese. Non a caso, Germania e Francia hanno grandi aziende e vanno avanti. Noi abbiamo tutte pmi. Ma questo modello andava bene negli anni ’80”.

A che punto è la Belt and Road Initiative (Bri)? La pandemia ha per caso affossato il progetto?

“Distinguiamo la narrazione dai contenuti. I contenuti vanno avanti. La BRI è ancora al centro del governo cinese. Diciamo che il governo cinese ha avuto qualche problema di narrazione sul tema, quindi ne parla meno. Ma continua a fare. Pechino ha compreso che certe questioni geopolitiche hanno creato fastidio. Dunque ha abbassato i toni e prosegue sotto traccia. La BRI, in ogni caso, va avanti per inerzia. È un progetto di tutti, non solo della Cina. La Cina lo ha semplicemente lanciato”.

Capitolo Usa: cosa cambia nelle relazioni tra Stati Uniti e Cina con la vittoria di Joe Biden?

“Le relazioni Usa-Cina si complicheranno. Biden è ideologico, è il fautore del pivot to Asia di Obama. Non accetterà mai che un Paese non democratico possa vincere la battaglia economica mondiale. Trump, nonostante i toni, focalizzava la sua attenzione solo sul commercio. Il suo era un problema risolvibile mediante progressivi accordi. Biden parte da un punto di vista molto differente”.





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