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Anima e volto dell’Europa di domani potrebbero essere irriconoscibili agli occhi dei contemporanei, perché il possibile e probabile portato del perdurare e dell’eventuale cristalizzazione di determinate dinamiche demografiche (crisi delle culle, invecchiamento della popolazione, moti migratori provenienti dalle terre al di là del Mediterraneo) potrebbe essere un rivolgimento etnico di natura epocale.

Le annose questioni dell’invecchiamento della popolazione e dell’inverno demografico riguardano quasi ogni stato europeo, dalla Scandinavia ai Balcani, senza che demografi, sociologi e politici siano riusciti a formulare una ricetta per rallentare, fermare ed eventualmente invertire la tendenza autogenocidiale. Fa eccezione l’Ungheria di Fidesz, dove il modello della cosiddetta “demografia patriottica” sta producendo risultati tangibili, ma la consapevolezza che il successo delle politiche nataliste si misura nel lungo termine impone il mantenimento di un cauto e moderato ottimismo.

Discorso differente, invece, per quel fenomeno che potrebbe essere definito ed esplicato in termini di “transizione etnica“, ovverosia la riscrittura degli storici fulcri etno-identitari di intere nazioni cagionata e risultante, oltre che dall’invecchiamento della popolazione autoctona, da massicci flussi migratori e dalla persistente discrepanza tra i tassi di fertilità di nativi e forestieri.

Innumerevoli le nazioni europee interessate da questa tendenza, che, lungi dall’appartenere al reame della fantademografia, sta divenendo oggetto di crescente interesse da parte di università e centri di ricerca. V’è il caso della Francia, dove il sorpasso degli arabi sugli autoctoni potrebbe avvenire entro il 2060, di Romania, Bulgaria e Ungheria, dove le minoranze rom potrebbero diventare maggioranze attorno a metà secolo, e della Svezia, che nei prossimi quarantacinque anni potrebbe assistere ad una drammatica rivoluzione etnica.

Lo scenario del ricercatore finlandese

Kyösti Tarvainen, ricercatore finlandese con una carriera alle spalle presso l’università Aalto di Helsinki, nei giorni scorsi ha messo la firma su un’analisi demografica pubblicata sulla versione digitale del giornale svedese Folkbladet. L’analisi, che ha generato ampio dibattito sia in Scandinavia sia all’estero, concerne il futuro della Svezia, la cui composizione etnica, secondo Tarvainen, sarebbe destinata a mutare profondamente per via della mescolanza di dinamiche demografiche e migratorie a detrimento degli autoctoni.

Raccogliendo, esaminando e interpretando i dati relativi ai tassi di fertilità tra svedesi etnici e abitanti di origine extraeuropea, nonché operando un raffronto con le stime dell’Istituto di Statistica della Svezia, Tarvainen è giunto alla conclusione che il 2065 potrebbe essere l’anno della svolta, ovvero della nascita di una “nuova nazione”. Quell’anno, stando alle proiezioni demografiche dell’accademico, causa immigrazione e divario tra i tassi di fertilità, è previsto il sorpasso dei residenti non-europei (7.694.000) sugli svedesi etnici (7.364.000).

Lo scenario delineato da Tarvainen, per quanto stia facendo discutere, non è né ineluttabile né inconfutabile: l’autore, infatti, ritiene che suddetto punto di non ritorno possa essere raggiunto soltanto a condizione che perdurino nel tempo gli attuali ritmi immigratori – più di 80mila richieste d’asilo dal 2017 al 2020 e circa 475mila ingressi nello stesso periodo – e l’insufficiente propensione alla natalità degli autoctoni – al di sotto della fertilità sostitutiva (2,1 figli per donna) dal lontano 1992.

Nel 2019, si legge ancora nella disamina di Tarvainen, l’88% degli immigrati residenti in Svezia era di origine non-europea e uno su due era di fede musulmana. Entro il 2100, invece, assumendo la bontà del modello previsionale, un abitante su due potrebbe essere musulmano: un mutamento tanto di forma quanto di sostanza.

Le paure di Tarvainen

La Svezia ha un problema con il funzionamento del proprio modello di integrazione, un tempo giudicato efficace e celebrato da più parti come un caso studio da emulare, ma che, da almeno un decennio, è entrato in una fase di grave crisi, come mostrano e dimostrano le problematiche per la sicurezza pubblica rappresentate dalla longeva e sanguinosa guerra tra bande, le periodiche rivolte nelle enclavi etniche, l’attecchimento dell’islam radicale e la proliferazione di società parallele avvolte da disoccupazione e criminalità.

Dato che le previsioni di oggi potrebbero essere la realtà di domani, Tarvainen ha colto l’occasione della pubblicazione per spronare le autorità svedesi ad accettare il cambio di paradigma in corso e dotarsi degli strumenti adeguati per eteroguidarlo. Perché riduzione numerica degli svedesi “significa società parallele, con culture e stili di vita paralleli” e che “gli immigrati nolenti ad assimilarsi creeranno molti problemi alla maggioranza della popolazione”.

“L’economia svedese non collasserà”, riferisce il ricercatore, citando le opinioni rassicuranti di altri ricercatori ed analisti economici, ma le ripercussioni negative sulla “fiducia e sulla coesione sociale” saranno inevitabili. Il monito è perentorio, perché le manifestazioni violente del rimescolamento etno-religioso sono già oggi visibili e palpabili: il modello svedese di integrazione va ripensato da cima a fondo, e piegato ad un orizzonte temporale di lungo periodo, pena lo sfaldamento della nazione.

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