Tutto inizia negli anni ’80 con una guerra commerciale che valeva, e vale tuttora, miliardi di dollari: da una parte l’olio di colza e quello di soia; dall’altra gli oli tropicali estratti dalla palma e dal cocco. La Tropical Grease Campaign fu nient’altro che il tentativo delle lobby americane dei semi di soia di bloccare sul nascere la diffusione della palma. Un olio meno costoso e dai rendimenti migliori, visto che è inodore e incolore e grazie all’alto contenuto di grassi saturi è perfetto per mantenere morbide merendine e pasticcini.A far scattare la campagna denigratoria fu l’American Soybean Association (Asa) che accusò l’olio di palma di provocare ogni sorta di malanno: dalle malattie cardiovascolari al cancro. In realtà alle spalle c’era di tutto tranne che un dibattito scientifico serio. Guarda caso a presentare una legge anti-olio di palma furono i politici dei due Stati produttori di soia: Kansas e lo Iowa. Solo nel 1989 i contendenti deposero le armi. Ma era un armistizio destinato a essere rotto velocemente. Infatti, pochi anni dopo in Europa, per motivi sia ambientali sia di salute, il tema tornò d’attualità.A riaccendere la miccia fu la Francia, grande produttore di olio di colza. Anche questo un concorrente della palma. Nel 2015 Ségolène Royal, allora ministro dell’Ecologia, accusò la Ferrero di aver favorito il disboscamento del pianeta producendo Nutella con olio di palma. Poi fu costretta a fare marcia indietro, ma la sparata acutizzò la tensione di per sé già elevata dopo la decisione dell’Ue di obbligare le aziende alimentari a scrivere sull’etichetta le specifiche degli ingredienti dei loro prodotti. Da un giorno all’altro i consumatori scoprirono quanto olio di palma si nascondesse in muffin e crostate confezionate. E così scattò una tale isteria di massa da far raccogliere 175mila firme per boicottarlo. Stessa storia e stesse accuse: «È cancerogeno», «provoca obesità», «favorisce problemi cardiovascolari» e via dicendo. A incendiare i rivoltosi ci pensò una ricerca scientifica dell’Università di Bari secondo cui ci sarebbe un legame tra la palma e il diabete. Apriti cielo. Peccato che lo stesso team di scienziati fu costretto ad ammettere che i dettagli dello studio «erano scorretti».Ma ormai il danno era fatto: il M5S cavalcò l’onda presentando mozioni e proposte di legge per far mettere nero su bianco che «nuoce alla salute». Ma si tratta di una bugia, visto che non ci sono riscontri scientifici che ne dimostrino la nocività. L’Istituto Superiore di Sanità ha dichiarato che l’olio di palma non contiene «componenti specifiche» che possano «determinare effetti negativi sulla salute». Certo, ingozzarsi di grassi saturi non fa bene. Ma la loro presenza non è di per sé dannosa. Inoltre l’assunzione giornaliera di grassi saturi solo in piccola parte deriva dall’olio di palma: meno del 20%. Il resto lo assumiamo da uova, latte, carne e formaggi. Eppure nessuno ha mai pensato di boicottare la torta della nonna, che se fatta col burro sarà sicuramente più dannosa dell’olio di palma. Ad alimentare il fuoco ci ha pensato l’Autorità europea per la Sicurezza Alimentare (Efsa) segnalando la presenza di composti cancerogeni nei processi di raffinazione ad alte temperature di diversi oli vegetali. Ovviamente l’inquisizione s’è scatenata solo contro la palma da olio, nonostante pure l’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro abbia affermato che non ci sono motivi ragionevoli per eliminarlo dalla tavola. Senza contare che, se le aziende decidono di non usare l’olio di palma, le cose peggiorano: per avere lo stesso rendimento, gli altri oli vegetali devono essere idrogenati in un processo che produce «grassi trans», quelli sì dannosi per l’organismo.





Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.