Ogni potenza che abbia ambizioni di egemonia culturale sui propri satelliti, o su aree che si vorrebbero controllare, dovrebbe costruire una propria industria dell’intrattenimento avente Hollywood come modello di riferimento. Nel mondo islamico, dove è in corso una vera e propria battaglia culturale per l’influenza sulla umma, due paesi sembrano aver compreso questa verità e stanno dedicando risorse crescenti alla realizzazione di telenovele, serie televisive e grandi produzioni cinematografiche: Turchia e Arabia Saudita.
Dalla Turchia una nuova moda: l’ottomania
Il 2020 si è aperto con il lancio su Netflix, la piattaforma di servizio streaming più in voga del momento, della serie televisiva turca più ambiziosa degli anni recenti, il cui titolo è già di per sé molto esplicativo, “Rise of Empires: Ottoman“. La trama è molto avvincente e narra l’impresa più mirabolante del sultano ottomano Maometto II: la presa di Costantinopoli del 1453.
Per rendere il prodotto appetibile anche per il pubblico internazionale, la serie tv è stata girata in lingua inglese, la direzione affidata ad uno dei più capaci registi turchi in circolazione, Emre Şahin, i ruoli principali rivestiti da attori di punta del cinema nazionale, come Tuba Büyüküstün e Cem Yiğit Üzümoğlu, e la sceneggiatura arricchita dal contributo di due storici, Celal Şengör e Emrah Safa Gürkan.
Rise of Empires è soltanto l’ultimo di tanti prodotti sfornati recentemente dall’industria dell’intrattenimento turca, che nell’ultima decade ha subito una profonda revisione su iniziativa del presidente Recep Tayyip Erdogan, il cui obiettivo ultimo è la creazione di un apparato in stile Hollywood capace di proiettare oltre confine la visione del mondo neo-ottomana di Ankara.
Nel 2017 è stato il turno di “The Last Emperor“, sulla vita del sultano Abdul Hamid II. La trama è focalizzata sulla lotta dell’imperatore ottomano contro i Giovani Turchi e le potenze europee. Parti della critica e del pubblico ritengono che si tratti dell’opera più politica degli anni recenti, alla luce delle incredibili somiglianze fra il protagonista e il presidente turco: le relazioni conflittuali con l’Occidente, il sogno di fare la Turchia il baricentro della civiltà islamica, la diffidenza verso l’opposizione, l’esaltazione delle istituzioni parallele.
L’evento spartiacque è stato rappresentato da “Resurrection: Ertuğrul“, una serie televisiva di cinque stagioni andata in onda su TRT dal 2014 al 2019 e narrante la storia di Ertuğrul, il padre di Osmano I, il fondatore dell’impero ottomano. Le aspettative su Resurrection erano elevatissime, la campagna pubblicitaria è stata enorme, e vi ha partecipato lo stesso Erdogan, che più volte ha visitato il set. L’esperimento si è rivelato un successo: acclamata dal pubblico del mondo islamico come il “Games of Thrones turco”, Resurrection è diventata un fenomeno pop in Azerbaigian, Pakistan, Kashmir, ma non sono mancate le critiche.
In Egitto, l’Alto Consiglio della Fatwa (Dâru’l-İftâ), ha lanciato una fatwa contro la serie televisiva, proibendo ai telespettatori di guardarla per un motivo molto particolare, che non ha a che fare con la religione: “il presidente turco Recep Tayyip Erdogan sta cercando di riportare in vita l’impero ottomano e sta utilizzando i dramma televisivi a questo fine”.
Un prodotto innovativo
In Turchia non si parla di telenovele e soap opere, termini considerati in maniera negativa, ma di “dizi“, un nuovo genere televisivo mescolante narrativa storica, potenti colonne sonore ed ambientazioni epiche. I numeri confermano il successo dell’agenda per l’intrattenimento di Erdogan: la Turchia è il secondo paese al mondo, dietro gli Stati Uniti, in termini di distribuzione internazionale dei propri prodotti televisivi.
La tematica preferita delle dizi è una: l’impero ottomano. Sullo sfondo delle produzioni di guerra, come Rise of Empires, vengono realizzati anche prodotti per il grande pubblico “laico”, come “The Magnificent Century“, serie televisiva in due stagioni che narra le vicende, realmente accadute, di una schiava divenuta una delle più donne più influenti presso la corte del sultano nel 16esimo secolo, Kösem Sultan. All’epoca della messa in onda, The Magnificent Century fu ribattezzato il “Sex and the City dell’era ottomana” e fu seguito, in media, da un terzo degli spettatori di tutto il paese. Il successo fu tale da spingere più di 100 paesi, soprattutto a maggioranza islamica, come Algeria e Marocco, a comprare la serie televisiva per distribuirla nelle proprie reti.
Il governo turco si è posto un obiettivo importante: ottenere un miliardo di dollari dall’esportazione delle dizi entro il 2023. Il boicottaggio di Egitto, petromonarchie del golfo e altri paesi arabi non viene ritenuto un problema, perché İzzet Pinto, il fondatore della casa di distribuzione Global Agency, ha spiegato che ad Ankara è già stato elaborato un piano di contingenza: aggirare l’embargo invisibile del mondo arabo espandendosi nei mercati di America Latina ed Europa, in particolare in paesi con forte tradizione telenovelistica, come Italia e Spagna.
La controffensiva saudita
L’Arabia Saudita sta sfruttando il proprio ascendente sulla MBC, la rete di canali più seguita del mondo arabo, per limitare significativamente la trasmissione di prodotti turchi. Nel 2018 sono stati rimossi tutti i programmi turchi dai canali della MBC, senza alcuna spiegazione specifica, alla quale hanno fatto seguito simili iniziative da parte di Egitto ed altre petromonarchie del golfo.
Il potere nascosto dell’intrattenimento
Televisione, cinema e letteratura sono dei potenti veicoli la cui funzione non si esaurisce nel semplice intrattenimento, perché essi sono soprattutto dei mezzi di diffusione culturale capaci di condizionare i consumatori. Ad esempio, un programma comico può contribuire a rompere il tabù dell’omosessualità, mentre una serie televisiva ambientata nel passato può spingere gli spettatori ad indagare sulle relazioni interreligiose nel pre-1948 così come può spingerli a rivalutare positivamente esperienze imperiali del passato e ad appoggiare politiche governative attuali che le ricordano e che ambiscono a restaurare antichi fasti perduti.
Questa è anche l’opinione di Michael Stephens del Royal United Services Institute, secondo il quale “Um Haroun” sarebbe un tentativo della famiglia reale saudita di ridurre la narrativa antiebraica nel panorama culturale del paese, nell’aspettativa di accelerare la normalizzazione dei rapporti con Israele. Allo stesso modo, Erdogan sta invece tentando di sponsorizzare la propria agenda neo-ottomana sia all’interno della Turchia che nel resto del mondo.