Il messaggio, nonostante fosse atteso da giorni, arriva improvviso: “Ho appena passato il confine. Sono salva”. L’ha inviato la “soldato Jane”, che avevamo incontrato a Kabul tra gli zombie dell’Afghanistan talebano. Occhi scuri, che sbucavano tra la mascherina e il velo, e la voce sicura di chi sa di aver fatto il proprio dovere: “La nostra situazione è disperata se voi italiani non riuscirete a farci uscire dal paese finirà male. Molto male”, ci aveva detto. Oggi, però, il “soldato Jane”, di cui non possiamo fare il nome per motivi di sicurezza, è riuscita a fare il passo più importante della sua vita: quello che l’ha portata al di là del confine. La sua, però, è una eccezione.
Sono ancora centinaia gli afghani che hanno collaborato con gli italiani durante questi vent’anni di guerra e che ora vivono sotto il regime dei talebani. Tra gli abbandonati, di cui non è facile individuare un numero, anche dieci interpreti che facevano parte di una lista di 57 nomi affidata ad Ali Safdari, un loro collega che ora si trova in Italia e che, racconta chi è rimasto, non ha fatto molto per aiutarli.
I nomi dei dieci interpreti rimasti erano tutti nella lista che era stata approvata dal generale Luciano Portolano, alla guida delle operazioni di esfiltrazione a Kabul che hanno permesso l’evacuazione di 4.890 afghani. Non appena hanno ricevuto i messaggi del Covi per raggiungere l’aeroporto, gli interpreti hanno fatto il possibile per arrivare all’interno di Abbey Gate: “Abbiamo venduto i nostri elettrodomestici e le nostre cose e siamo partiti da Herat per Kabul a metà agosto 2021. Tuttavia, quando abbiamo raggiunto l’aeroporto di Kabul” – scrivono nella lettera – “abbiamo dovuto aspettare a lungo sulla ‘linea della morte’. Alcuni di noi hanno quasi perso moglie e figli nel tentativo di raggiungere la prima linea. Alcuni sono arrivati in Italia, ma non noi perché non siamo riusciti a superare la folla. Quelli che ce l’avevano fatta e che avevano raggiunto il punto di esfiltrazione sono stati ignorati dalle forze italiane…”.
Per gli interpreti rimasti, quelli dal 15 agosto in poi, sono stati dieci giorni di fuoco, che sono evaporati il 26 agosto scorso, dopo l’attentato dello Stato islamico all’aeroporto di Kabul. Sono stati sufficienti pochi istanti, subito dopo l’esplosione, per comprendere che le operazioni erano ormai impossibili perché non c’era più alcuna possibilità di garantire la sicurezza della struttura e delle migliaia di persone che vi erano dentro. Quando l’ultimo aereo italiano parte, la frustrazione comincia a diffondersi tra gli afghani.
I dieci rimasti, insieme alle famiglie, si sentono traditi e abbandonati: “Alcuni di noi sono a Kabul” – ci fanno sapere – “e vivono nelle tende sotto un clima estremamente caldo, tanto che alcuni membri della nostra famiglia si sono ammalati, ma non possiamo permetterci di portarli dal medico perché abbiamo speso la maggior parte dei nostri soldi. I nostri figli hanno problemi psicologici, piangono e si lamentano tutto il giorno. Alcuni di noi sono tornati a Herat e ora mantengono un profilo basso per evitare di essere identificati come interpreti italiani”.
Ciò che più li assilla è il tempo. Ogni giorno che passa è un giorno in più in cui rischiano che i talebani gli taglino la gola: “Non ci possiamo fidare di loro”, ci raccontano. “Sono un gruppo terroristico”. Nei giorni scorsi la Difesa ha chiamato alcuni di loro per dire che si sta facendo il possibile e che, a breve, potranno abbandonare il Paese. Ma gli interpreti fanno fatica a fidarsi. Hanno bisogno di azioni concrete, il prima possibile: “Chiediamo al governo italiano di ascoltare la nostra voce e di venire in nostro soccorso prima che noi, o le nostre amate famiglie, perdiamo la vita solo perché abbiamo avuto l’onore di lavorare per le forze italiane”. Un appello che deve essere ascoltato. Anche perché nella nostra testa risuonano ancora le parole del “soldato Jane”: “Se non ci porterete fuori finirà molto male…”.