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Malesia e Singapore sono considerate, non senza importanti elementi di verità, due delle più interessanti nazioni destinate a essere tra i fari dello sviluppo dell’Asia Meridionale. Ma attorno a una profonda gamma di opportunità, nelle due nazioni permangono elementi di criticità da non sottovalutare. Tra questi due poli opposti si disegna il futuro della nazione e della città-Stato che occupano la penisola malese.

L’ombra di un islam sempre più radicale

La Malesia è un Paese che, costituzione alla mano, garantisce la libertà di religione. Eppure, questo privilegio è concesso solo ai cittadini non malesi, visto che a nessun cittadino malese è invece consentito rinunciare all’Islam. Il 61% della popolazione, stimata in circa 32 milioni di abitanti, segue la religione musulmana. Sono di fatto i musulmani a fare il bello e il cattivo tempo, soprattutto da qualche anno a questa parte. L’estremismo islamico si sta radicando sempre di più anche nel cuore dell’Asia, dove non mancano nazioni in cui l’islam è la religione ufficiale e il numero di fedeli musulmani supera nettamente quello delle altre credenze. La Malesia rientra nella categoria.

Nel Paese esiste un doppio sistema legale, dal momento che la sharia si applica soltanto agli islamici. Non mancano, tuttavia, le “brigate moralizzatrici“, come la Jawi, cioè il Dipartimento religioso dei territori federali islamici adibito alla prevenzione del vizio, e il Jakim, il Dipartimento per lo sviluppo islamico della Malesia. Eppure, con sempre maggiore insistenza, le piazze si riempiono di manifestanti che protestano. Per quale motivo? La richiesta è semplice: estendere la legge islamica all’intera popolazione. Nel 2013 il Pew Global Attitudes Survey evidenziava i primi segnali di instabilità sociale interna. Già all’epoca – oggi la situazione potrebbe perfino essere peggiorata – per il 40% dei musulmani malesi la violenza poteva essere giustificata contro i nemici dell’islam.

Le sfide geopolitiche ed economiche della Malesia

Da un punto di vista economico, la Malesia è riuscita a superare il sottosviluppo retaggio dell’epoca coloniale. Grazie all’ascesa della Cina e a buone riforme interne, il Paese è riuscito a trasformarsi in una meta attraente per diverse multinazionale straniere, a cominciare dai colossi cinesi. Kuala Lumpur può contare su ingenti risorse naturali, anche se, con il passare degli anni, ha pensato bene di diversificare la propria economia. Questo significa che, a differenza del passato, l’apparato economico nazionale non si basa più sul binomio agricoltura più esportazione di materie prime (da citare la gomma naturale e lo stagno).

Al contrario, adesso il volano di crescita della Malesia è rappresentato dalla produzione di componenti elettronici di qualità, macchinari, altri prodotti industriali, dal turismo (in epoca pre Covid), ma anche altri servizi come l’istruzione universitaria. È molto interessante dare un’occhiata ai dati riportati dalla Banca Mondiale, secondo cui, durante il suo percorso di sviluppo, la Malesia sarebbe riuscita a ridurre la percentuale della popolazione povera (chi vive con meno di un dollaro al giorno) dal 50% nel 1970 a meno dell’1% nel 2014.

Allo stesso modo il reddito pro capite è passato dai 240 dollari del 1962 ai 9.860 del 2016. Ma il vero jolly pescato dal governo malese si chiama Nuova Via della Seta. Grazie all’adesione – non senza polemiche – alla Belt and Road cinese (nel 2013 il governo malese ha firmato un accordo infrastrutturale con la Cina per realizzare il progetto East Coast Rail Link), la Malesia ha rafforzato il sistema infrastrutturale e dei servizi, oltre che quello delle telecomunicazioni.

Singapore: il faro dell’Asia

Non ha bisogno di presentazioni, anche se molti si soffermano soltanto sulla sua faccia pulita dimenticandosi del lato più oscuro. A partire dal 2017, Singapore ha un reddito nazionale lordo pro capite di 54.530 dollari. Il Paese, o meglio la città-stato, offre uno degli ambienti normativi più favorevoli al mondo per le imprese, e può contare su una delle economie più competitive del pianeta. Dopo la rapida industrializzazione verificatasi negli anni ’60, il principale motore di crescita di Singapore è divenne la produzione. Nel giro di un decennio la mini nazione raggiunse la piena occupazione, mentre dieci anni più tardi divenne, assieme a Hong Kong, Corea del Sud e Taiwan una delle economie asiatiche “di nuova industrializzazione”.

Singapore è figlia del modello di sviluppo dirigista e semiautoritario (ma sarebbe meglio dire “paternalista”) impostato dalla dinastia dei Lee. Il modello edificato da Lee Kuan Yew a partire dalla presa del potere dell’ex avvocato nel 1959 e dell’inizio del lungo mandato da primo ministro che sarebbe durato fino al 1990 si basò sulla valorizzazione del ruolo strategico di Singapore, non più declinato solo in termini marittimi e commerciali. Lee capì come il XX e il XXI secolo sarebbero stati interessati da una crescita graduale del ruolo dell’Asia nel mondo e, in una fase in cui in Cina, India, Pakistan, Indonesia nel pieno della Guerra Fredda centinaia di milioni di persone vivevano ai limiti della capacità di sostentamento quotidiana, ebbe la lucidità di posizionare Singapore come hub in grado di attrarre investimenti, capitali, risorse, talenti. Trasformandolo in un faro economico e politico per la sua area di Asia. Vincolando Singapore alle catene del valore dell’elettronica, della finanza, del commercio aperte dapprima all’Occidente e poi alla Cina. Aprendo la strada alla trasformazione della città in un perno della globalizzazione dopo l’ascesa della Repubblica Popolare.

Singapore è divenuto il modello delle città globali, dei regni del neoliberismo contemporanei: Abu Dhabi, Dubai, Doha, Hong Kong. A cui si è aggiunta, tuttavia, una serie di problematiche sistemiche di non secondaria importanza. Prima fra tutte la preoccupante presenza di infiltrazioni di gruppi di criminalità organizzata, guidati dalle Triadi cinesi, nel mondo degli affari della città-Stato; in secondo luogo, la perseveranza di un modello che per mantenere irreggimentato lo sviluppo e aprire la strada alla corretta circolazione di capitali e risorse impone il pugno duro della repressione e del dissenso; vi è poi, come in ogni area ad altissimo reddito, una sperequazione del peso della giustizia e dell’autorità sulle fasce più povere della popolazione. I dati sull’applicazione della pena di morte nei decenni, rivolta soprattutto a reati legati al narcotraffico, lo testimoniano.

Infine, la madre di tutte le battaglie è quella delle disuguaglianze, legata a un modello sociale che di fatto esclude la possibilità di ottenere servizi sotto forma di welfare se non vincolati al possesso di un lavoro. Un avvio di riforme in direzione di una riduzione di queste problematiche si è visto tra il 2019 e il 2020, quando una serie di misure di lotte alla disuguaglianza ha permesso una crescita generalizzata dei redditi medi e mediani vicina al 4% e una riduzione da 0,45 a 0,38 dell’indice di Gini, che misura la concentrazione della ricchezza, passato da livello da Paese in via di sviluppo a quello dei Paesi dall’economia più simile al modello occidentale. Singapore dovrà rendere più inclusivo il suo contratto sociale per evitare che nella città dei 500mila milionari si aprano fratture e che la città Stato si trasformi in una Tortuga finanziaria assaltata a destra e manca da avventurieri e gruppi criminali. Il confine tra successo e disastro sociale, nel mondo globalizzato, è sempre molto facile da attraversare.

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