Crocevia naturale dei flussi commerciali tra Oceano Indiano e Mediterraneo, porta orientale del continente e a poche miglia dalla Penisola arabica, il Corno d’Africa rappresenta una regione fondamentale, quanto spesso dimenticata, della politica internazionale. Eppure, nonostante questa sorta di oblio che sembra oscurarne i destini, in questi ultimi decenni gli eventi che si sono succeduti hanno e avrebbero dato modo di comprendere i rischi, i drammi e anche le enormi opportunità di un’area così complessa.

Dalla guerra tra Etiopia ed Eritrea fino alla guerra in Somalia, dall’esplosione del terrorismo islamico al fenomeno della pirateria, fino all’attuale conflitto che va in scena nel Tigrai, il Corno d’Africa si presenta come un’area dalla conflittualità latente e dai forti interessi geostrategici. Regione in cui i singoli Stati cercano sopravvivere e di elevarsi da uno stato di limbo per consolidarsi come attori autonomi e portatori di propri interessi nazionali.

Perché il Corno d’Africa è importante

Per la sua posizione strategica – come dicevamo un punto di contatto tra le rotte commerciali ed energetiche che uniscono Oceano Indiano e Mar Rosso (quindi il Mediterraneo) – il Corno d’Africa ha da tempo attratto le mire di tutte le grandi e medie potenze interessate alla stabilità dell’area. Fondamentale, a tal proposito, la corsa al possesso di basi nella piccola Gibuti, che si è trasformata nel corso degli anni in un hub strategico per chiunque è interessato al controllo dell’area. Dall’Italia alla Francia, dagli Stati Uniti alla Cina fino allo stesso Giappone, diverse potenze hanno scelto di avere in quel fazzoletto di terra un proprio avamposto strategico. A queste, vanno poi aggiunte l’Arabia Saudita sempre a Gibuti, gli Emirati Arabi Uniti in Somalia, nella zona settentrionale, e la Turchia con la sua presenza militare a Mogadiscio. E la stessa Russia ha osservato con interesse, in questi ultimi anni, l’evoluzione militare dell’area puntando a un’installazione navale nella coste del Sudan (poi immobilizzata).

Mappa di Alberto Bellotto

L’importanza del fronte marittimo, data dall’enorme flusso commerciale che passa attraverso Bab el Mandeb (ma non solo) è certificata non solo dalla presenza di numerose basi navali, ma anche dalle operazioni militari attuate intorno al Corno d’Africa. Dalle missioni antipirateria fino a numerose attività poste in essere da attori regionali sempre più attivi (come i movimenti di navi iraniane o israeliane) fino a spedizioni di unità di potenze storicamente estranee alla regione, le rotte che circondano l’area sono sempre più importanti e ritenute fondamentali vettori di influenza e di ricchezza.

L’instabilità in Somalia

A questo elemento si aggiunge l’elevata instabilità che negli ultimi anni ha caratterizzato soprattutto la Somalia, Paese che solo di recente ha potuto superare il rischio di essere ufficialmente considerato uno “Stato fallito”. La presenza di numerosi gruppi terroristi e separatisti legati alle frange più radicali dell’islamismo, a partire da Al Shabaab, ha provocato non solo un conflitto con le forze regolari di Mogadiscio, ma anche con le forze internazionali coinvolte nella lotta al terrorismo, a cominciare dagli Stati Uniti.

Non va dimenticato, infatti, che nonostante quell’area orientale dell’Africa goda di un’attenzione inferiore sui media Usa, l’impegno americano nella regione non si è mai interrotto, specialmente attraverso l’uso di droni per colpire le potazioni nemiche. Obiettivi a cui si sono sommate spesso numerose vittime innocenti tra i civili. La Turchia, con la sua base militare a Mogadiscio, si è interessata per prima, sia come potenza mediorientale che Nato, ai destini della regione: e ora ne raccoglie i frutti grazie a un’intricata rete di influenze messe a repentagli soprattutto dall’inserimento degli Emirati Arabi Uniti a nord.

Mappa di Alberto Bellotto

Il nodo del conflitto in Etiopia

Il conflitto in Etiopia ha confermato l’interesse internazionale per l’area anche se in assenza di un chiaro intervento diplomatico. La fornitura di droni (attuata anche da parte dei turchi) in favore delle forze etiopi ha certificato il sostegno cinese anche per evitare il rovesciamento del governo. Una penetrazione già attuato attraverso fondamentali investimenti di carattere strategico tra cui ferrovie e edifici pubblici utili a comprendere anche la nuova geografia delle influenze cinesi nel continente.

Gli Stati Uniti al momento attuano una politica “a fisarmonica”: da un lato volta ad aprire canali di dialogo, dall’altro lato ferma sulle sanzioni nei confronti di individui connessi ad attività lesive dei diritti umani. L’amministrazione Biden ha evitato di prendere posizione in modo netto, ed è una scelta dovuta in larga parte al difficile equilibrio che lega il complesso mosaico etiope e dell’intero Corno d’Africa. Una recente dichiarazione congiunta da parte di di Australia, Danimarca, Germania, Paesi Bassi, Regno Unito e degli stessi Stati Uniti si è concentrata sulla richiesta a tutte le parti in guerra “di fermare immediatamente le offensive militari” e di “perseguire un accordo negoziato attraverso colloqui di pace sotto un processo guidato dall’Unione Africana”. A questa richiesta, si aggiunge invece la condanna nei confronti dell’Eritrea per essere intervenuta nel conflitto chiedendone il ritiro dall’Etiopia settentrionale.

La guerra, al momento, appare ancora di difficile risoluzione. Le ultime notizie parlano di un’avanzata dell’esercito federale etiopico su tre città del Tigrai: Shire, Alamata e Korem. I ribelli del Fronte popolare di liberazione del Tigray (Tplf) non sembrano in grado di resistere alle mosse dell’esercito etiope sostenuto dagli eritrei. E Volker Turk, Alto Commissario delle Nazioni Unite per gli Affari Esteri, ha parlato di “rischio significativo di escalation” dovuto alla “massiccia e continua mobilitazione di soldati e combattenti da parte delle varie parti in conflitto”. Una sensazione non diversa da quella del segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, che ha avvertito del rischio che la situazione della guerra in Etiopia diventi “fuori controllo”. Allarme che si inserisce nel contesto di un dramma umanitario fatto di abusi, violenze, carestia e grave mancanza di beni di prima necessità.

Una regione instabile

La guerra si unisce anche ad altre questioni di natura regionale che coinvolgono il Corno d’Africa. In un inestricabile meccanismo di alleanze, partnership e conflitti più o meno latenti, non va infatti dimenticato infatti il pericolo di ulteriori crisi che risentono anche sia di questioni di carattere ambientale che in generale strategico. Un simbolo di questo rischio è dato dall’utilizzo della grande diga sul Nilo Azzurro: infrastruttura fondamentale per l’Etiopia e che ha già messo in allerta Egitto e Sudan per avere piena e regolare disponibilità di flussi d’acqua del fiume. Ad agosto, è stato annunciato dal governo di Addis Abeba il terzo riempimento della Diga del Gran Rinascimento etiope (Gerd).

Un capo profughi a Dollow, Somalia. (Foto Sally Hayden / SOPA Images/Sipa USA)

La notizia, proclamata con toni trionfalistici dal governo etiope, ha innescato nuovi allarmi e proteste sia da parte del Cairo che di Khartoum che temono il Paese del Corno d’Africa possa interrompere o comunque dosare la quantità d’acqua a valle per utilizzarla sia a scopo energetico che come leva negoziale. L’Etiopia ha più volte smentito che questa infrastruttura avrà un effetto limitante sulla distribuzione d’acqua lungo il corso del Nilo. Il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi ha chiesto il sostegno della comunità internazionale per giungere a un accordo vincolante sul suo sfruttamento. Ma anche in questo caso, al momento non sembra essere prossimo un compromesso: elemento non di poco conto per un’area così grande, popolata, e che vive da sempre in lotta contro la scarsità d’acqua e ora con la ricerca di energia elettrica per sostenere lo sviluppo. Interessi in conflitto e così basilari possono essere la miccia per nuove e pericolose tensioni.

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