Riuscire a parlare con Arnon Shahar, il responsabile della campagna di vaccinazione in Israele, non è facile. Si fissa un appuntamento e poi lo si rimanda. Una, due, tre volte. Il lavoro infatti è tanto e le scelte da prendere importanti. Le interviste, quindi, passano in secondo piano. Riusciamo a contattarlo solamente quando a Gerusalemme è già sera inoltrata.
Professore, qual è la situazione in Israele?
Da noi i casi stanno aumentando e, da un mese a questa parte, siamo alle prese con una quarta ondata, che ha numeri simili alla terza dello scorso dicembre. Quando parlo di casi mi riferisco ai positivi giornalieri, circa 3500. Ciò che è cambiato è però il numero di decessi e ricoveri. Notiamo che, nonostante i vaccinati vengano contagiati, la probabilità che hanno di contrarre una malattia grave è parecchio ridotta rispetto a chi non è vaccinato, soprattutto se si parla di over 60.
Siete stati i primi a decidere di fare anche una terza dose. Come mai?
Perché ci siamo resi conto che, negli ultimi tempi, registravamo una ridotta immunità tra i vaccinati e un maggior contagio, soprattutto tra gli over 60 e i giovani con fattori di rischio. Probabilmente, questo è dovuto a due fattori. Il primo: l’eventuale capacità della variante delta di bucare il vaccino. Il secondo: una ridotta risposta anticorpale, causata dal tempo passato dall’ultima dose.
È dunque passato troppo tempo da quando le persone sono state immunizzate?
Non so se è passato troppo tempo, ma certamente abbastanza, in quanto registriamo una ridotta risposta anticorpale. È per questo che, dopo importanti discussioni mediche, abbiamo deciso di far fare anche una terza dose. Le assicuro però che non è stato facile.
Un articolo del Jerusalem Post, da taluni travisato, parlava del 60% di vaccinati tra i nuovi malati. Sono dati corretti?
Non penso che i dati siano così alti. Ma anche se lo fossero, bisogna tenere presente che abbiamo oltre il 95% degli over 60 vaccinati e, pertanto, non mi meraviglierei di dati simili. La cosa più importante, però, è che se confrontiamo i dati di oggi con quelli dello scorso dicembre vediamo che abbiamo la metà di persone colpite da malattie gravi. È un fattore che ci rassicura e ci fa ben sperare.
Questo per quanto riguarda gli over 60. Quali sono invece i dati sui giovani?
Anche in questo caso abbiamo confrontato i dati dei vaccinati con quelli dei non vaccinati. Come mai? Non perché volevamo avere informazioni in più su questi ragazzi – sappiamo infatti che sono colpiti da una malattia più lieve rispetto agli anziani – ma perché volevamo capire se il virus era in grado di colpire le persone grazie alla variante delta o alla ridotta capacità anticorpale. Abbiamo visto che i vaccini tra i 12 e 15 anni hanno un’efficacia del 95%. Cosa vuol dire questo dato? Che la riduzione anticorpale è più importante della variante. All’inizio ci aspettavamo un’efficacia dell’80% o del 90%, ma non avevamo ancora questo dato temporale. Questa cosa però ci rassicura.
Ci spieghi meglio, per favore.
Noi stiamo spingendo per la terza dose e questo cambierà il volto della pandemia. Si tratta infatti di una difesa più personale perché andiamo a vaccinare una determinata parte di popolazione affinché non contragga una malattia grave. Questa non è stata una decisione facile. Noi prendiamo decisioni difficili, come capita in una clinica di un medico. Sei dubbioso, non sai al 100% cosa fare o cosa ti dicono i dati. Ma le informazioni che avevamo e la nostra esperienza ci hanno spinto verso questa decisione. Con il green pass – e sperando di non fare nuovi lockdown – possiamo tornare non dico a vivere, ma a dove eravamo due o tre mesi fa.
Avete puntato su Pfizer. Come mai questa decisione?
A dicembre 2020, quando tutti ci guardavano, non sapevamo quanti vaccini avremmo avuto ma avevamo preso accordi anche con Moderna. Il governo israeliano e Pfizer, però, hanno visto che il nostro piano vaccinale era molto efficace e che poteva diventare un esempio in termini di efficacia e sicurezza. Abbiamo visto che questo vaccino non causa gli effetti collaterali che si pensano e, inoltre, abbiamo anche dimostrato la sua efficacia. L’intenzione iniziale, però, non era quella di puntare solamente su Pfizer. Ora, infatti, stiamo utilizzando anche Moderna.
In Italia, almeno all’inizio della pandemia, le uniche armi contro il Covid erano tachipirina e vigile attesa. Voi come curate i vostri pazienti?
È da dieci mesi che spingo per fornire una terapia anche per i malati gravi non in ospedale, ma in casa, con unità mobili in grado di fornire ossigeno, anticoagulanti, cortisone e perfino monoclonali. Il futuro sarà questo: usare la forza e la potenza della comunità per restare a casa e, così facendo, non intasare gli ospedali. È una cosa complessa ma è un rischio che bisogna calcolare e dirigere. Secondo me non possiamo guardare al passato. Questo sarà il futuro e sarà così anche dopo il Covid-19.
Prima abbiamo parlato della vostra scelta di fornire una terza dose alle persone fragili. Avete già qualche dato preliminare?
Di preliminare non abbiamo ancora nulla perché è troppo presto. Posso però dire che gli effetti collaterali sono minimi: abbiamo vaccinato quasi 600mila over 60 e immunodepressi. Non dobbiamo avere paura degli effetti collaterali. Siamo stati coraggiosi in qualche fascia d’età e, da poco, abbiamo iniziato con gli under 12 molto malati. Con loro non sappiamo ancora dove stiamo andando, ma rischierebbero malattie molto severe se prendessero il Covid. Abbiamo dunque pensato che questo rischio fosse minore.
L’Italia, come Israele, si è dotata di green pass. Come giudica questo strumento? È uno strumento sicuro per evitare il contagio?
Abbiamo avuto tre mesi senza limitazioni perché avevamo pochi pazienti positivi, ma lo usiamo per tutte le fasce d’età (gli under 12 devono fare un tampone rapido e lo stesso è per chi non è stato vaccinato). Sicurezza o certezza non sono parole che possono essere usate ora, però. Quello che dobbiamo fare è controllare le nostre conoscenze: valutare l’ambiente, quanti positivi e contagiati abbiamo in una zona, e cercare di proteggere gli anziani. Il nostro scopo non è prevenire il contagio – arriverà un momento in cui non considereremo più i positivi – ma il peso sul sistema sanitario. Non abbiamo certezze, ma dobbiamo avere la percezione che quando entri in un posto affollato puoi star tranquillo e sai che non prenderai il Covid o comunque avrai basse probabilità di prenderlo.
Qualche settimana fa, però, Fauci ha detto che anche i vaccinati sono contagiosi. Non c’è un po’ troppa confusione?
Le persone sono confuse. E pure il sistema sanitario. Fauci ha detto bene: un vaccinato può sia esser contagiato che contagiare, seppure in maniera minore. Ovviamente, quando sei più vicino alla seconda o terza iniezione hai la possibilità di prender la malattia in modo più blando. Ora bisogna capire se la terza dose durerà di più o se dovremo aspettare una modifica di Pfizer o Moderna.
La terza dose sarà dunque per tutti?
Finché non vaccineremo tutte le fasce d’età, inclusi i bimbi piccoli (e non possiamo ancora farlo) dovremo farla tutti. Ma, quando potremo vaccinare anche i bambini, passeremo da una pandemia a un’endemia. Bisognerà poi vedere anche ciò che succede in tutto il mondo…
Il 70% del mondo però non è vaccinato. Cosa succederà?
Il piano vaccinale mondiale, per tanti motivi, ricalcherà quello israeliano perché siamo stati noi a dimostrarne l’efficacia. Anche la terza dose rientra in questo, anche se molti ci hanno rimproverato di non aver aspettato l’opinione dell’Fda. No, non lo abbiamo fatto anche per le donne gravide, nemmeno per i ragazzi tra i 12 e i 15 anni. Ci sono state molto critiche, ma poi ci hanno dato ragione. Il dibattito fa parte della ricerca. Deve essere così: bisogna porsi domande e dare delle risposte. Non possiamo fornire certezze, ma da ricercatori e da medici dobbiamo discutere. Non è una questione morale. Io lavoro non solo per Israele, ma anche per la comunità internazionale. Fa parte del mio lavoro e, per questo, mi rendo disponibile.
Su Haaretz alcuni sui colleghi dicevano che i vaccini sono fondamentali, ma non sono l’unico strumento per metter la parola fine alla pandemia. Condivide questa linea? Quale altri armi abbiamo?
È vera. Se non continueremo a metter la mascherina e se non limiteremo gli assembramenti faremo fatica a contenere questa pandemia. Questo virus, infatti, muta non appena c’è grande mobilità di positivi. Potrebbero arrivare anche varianti in grado di bucare il vaccino. Per me il piano vaccinale è fondamentale perché ci aiuta a imparare a convivere con la pandemia. Ma non è l’unico modo per vincere.
All’inizio della pandemia il tracciamento era fondamentale. Ora sembra esser passato in secondo piano. Perché?
Perché prima si tracciavano poche persone, mentre oggi è impossibile tracciare migliaia di persone in modo manuale. Non si può inoltre tracciare chiunque: è giusto ma dobbiamo farlo in modo corretto: se tracci manualmente arrivi magari al 60% delle persone che devi cercare e, così facendo, magari non tracci il 40% che ti serve davvero. Devi andare a tracciare dove ci sono stati assembramenti pericolosi, non solo perché devi bloccare chi si è contagiato, ma anche per capire come comportarti. Ora stiamo per riaprire le scuole: non dobbiamo tracciare se tanto poi faremo come sempre. Tu devi capire se riesci a isolare mille persone e avere la certezza che gli altri ragazzi possono continuare la scuola senza chiuderla.
Non sempre è facile convincere le persone a vaccinarsi. Voi come fate?
È molto difficile: per me però quello che conta è che parli il medico, non il politico. Innanzitutto, dobbiamo far vedere i nostri dati. Non perché sappiamo tutto ma perché in questo modo mostriamo quello che sappiamo. Quando un paziente viene da me in clinica e gli do gli antibiotici, non ha la certezza che il giorno dopo guarirà. Perché neanche io lo so. Però gli spiego la situazione, la terapia, e gli racconto cosa mi aspetto. Stiamo facendo così anche per i vaccini. Per parlare a certe comunità, invece, raggiungiamo i loro leader e spieghiamo loro perché devono aiutarci a convincere i fedeli. Ovviamente il pubblico ascolta e capisce ciò che vede.
È per questo che avete iniziato soprattutto con le persone più a rischio?
Sì, ma bisogna fare attenzione perché tra i giovani la malattia non porta solo effetti non gravi. Vediamo anche bambini che soffrono di long Covid e di problemi di concentrazione. Noi non conosciamo ancora gli effetti a lungo termine di questo virus e nella storia della medicina non abbiamo mai preferito una malattia rispetto a un vaccino.
Cosa ci dobbiamo aspettare in futuro? E quando saremo fuori?
Vedremo delle salite importanti in Europa e forse ancora una in Israele. Gli ultra ortodossi sono tornati a scuola e, a partire dal 15 settembre, riapriranno tutti gli istituti. Poi ci saranno le feste ebraiche. Questi due fattori aumenteranno i contagi. Abbiamo tanti fattori in ballo. Vedremo diverse salite…
Quindi? Non ne usciremo?
Dipende molto da come andrà l’Europa e da come funzionerà il vaccino. Tra quattro settimane in Israele vedremo una riduzione di contagi e, se non porteremo in ospedale ogni persona malata, riusciremo a convivere con il virus.