Cresce la tensione tra la Cina e l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms). Se un anno e mezzo fa, durante le prime fasi della pandemia di Covid-19, l’agenzia con sede a Ginevra era più volte stata accusata di aver coperto i presunti errori commessi da Pechino nella gestione iniziale del virus, oggi quell’idillio, reale o immaginario che fosse, sembra essere giunto ai titoli di coda. Basta ascoltare le ultime parole di Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Oms, per capire che il vento è cambiato.
“Speriamo che ci sia una migliore cooperazione per scoprire che è accaduto davvero. Il primo problema è la condivisione dei dati grezzi e ho detto, alla conclusione della prima fase delle indagini, che questo problema andava risolto. Il secondo è che c’è stato un tentativo prematuro di ridurre il numero di ipotesi, come quella del laboratorio“, ha spiegato Ghebreyesus nel corso di una conferenza stampa. L’Oms ha sostanzialmente invitato la Cina a collaborare di più nell’indagine sulle origini della pandemia di Covid-19 e riabilitato la pista del laboratorio.
E pensare che la scorsa primavera, al termine della missione ufficiale di un team di esperti inviati dall’agenzia a Wuhan, la tessa Oms aveva sbandierato un report nel quale definiva “estremamente improbabile” l’eventuale fuoriuscita del Sars-CoV-2 dal Wuhan Institute of Virology (WIV). Anche se la tesi prevalente, almeno per il momento, resta la trasmissione zoonotica da animale a uomo, mediante l’azione di un animale intermedio ancora da identificare, la Lab Leak Theory ha riacquisito una sua centralità.
Il rifiuto cinese
Non sappiamo per quale motivo l’Oms abbia rimesso (quasi) tutto in discussione. Sarà un caso, ma da quando Joe Biden ha chiesto all’intelligence americana di scavare a fondo per portare a galla prove e informazioni sulle origini del virus, i riflettori sono tornati a illuminare la facciata del WIV. Una settimana fa Ghebreyesus ha chiesto un audit dei laboratori nelle aree in cui sono stati identificati i primi casi di coronavirus; una lunga perifrasi, questa, per riferirsi niente meno che alla città di Wuhan.
L’Oms ha sostanzialmente chiesto a Pechino nuovi chiarimenti, da conseguire imbastendo una seconda indagine proprio nel capoluogo della provincia dello Hubei. La Cina non ha creduto alle proprie orecchie e si è detta “scioccata” dalle dichiarazioni dell’agenzia. Ma la risposta vera e propria è arrivata dalla bocca di Zeng Yixin, viceministro della Commissione nazionale per la Salute. L’alto funzionario cinese ha spiegato di essere rimasto sconvolto dal piano dell’Oms di avviare una seconda fase di studio sull’origine del nuovo Covid. Per quanto riguarda la teoria di una fuga da un laboratorio di Wuhan, si tratterebbe soltanto “di rumors in contrasto con il buon senso”.
Nervi tesi
Ricapitolando: da una parte troviamo l’Oms, pronta a cercare nuove tracce sulle origini del Covid, e desiderosa di avviare una seconda missione in terra cinese; dall’altra c’è la Cina, convinta di aver già aperto tutte le sue porte alla comunità internazionale. Il Dragone è rimasto alquanto irritato dall’uscita dell’agenzia internazionale, tanto che il signor Zeng ha definito la proposta dell’Oms una “mancanza di rispetto” e “una forma di arroganza nei confronti della scienza”.
E pensare che all’inizio della pandemia, quando l’opinione pubblica sospettava che la Cina avesse nascosto di proposito i primi contagi nel tentativo di insabbiare l’emergenza globale, Tedros Ghebreyesus fu il primo a volare a Pechino per cercare di calmare le acque. A due passi dalla Città Proibita, il direttore dell’Oms incontrò Xi Jinping in persona per elogiare la trasparenza della Cina e il modello di contenimento attuato dalle autorità cinesi. “Guai a politicizzare la pandemia”, avvertivano gli esperti dell’Oms. Gli stessi esperti che adesso sono entrati in rotta di collisione con la Cina, che dal canto suo punta il dito contro il laboratorio di Fort Detrick negli Usa, situato vicino Washington e al centro della ricerca americana contro il bioterrorismo.