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Mentre da una parte la comunità scientifica rassicura il più possibile sull’efficacia dei vaccini contro le varianti del coronavirus, dall’altra lo studio sui monoclonali ha dovuto subire un’accelerazione per stare al passo con le mutazioni del Sars-CoV-2. Dagli Stati Uniti all’Europa le novità sono molte. In Italia intanto la terapia coi monoclonali va avanti con buoni risultati.

Dai vaccini ai monoclonali: a che punto siamo?

Impossibile parlare di coronavirus senza far cenno alle varianti: da alcuni mesi abbiamo fatto l’abitudine  alla possibilità delle mutazioni del Covid. Da ottobre ad aprile c’è stato modo, in diverse occasioni, di verificare come il virus sia suscettibile di continue variazioni. Tutto questo ha fatto sorgere dubbi, legittimi, in merito all’efficacia delle terapie finora studiate e introdotte per prevenire e combattere i casi di infezione da Covid. Partiamo dai vaccini. Nel momento in cui le aziende farmaceutiche hanno annunciato la realizzazione dei primi sieri contro il Sars-CoV-2, si sono accese le speranze per debellare il virus. A dicembre diversi Paesi del mondo si sono messi in fila per acquistare il maggior numero possibile di dosi da somministrare alla popolazione. Nel frattempo le prime varianti si facevano però sempre più spazio nei corridoi di contagio creando dubbi e allarmismi circa l’inefficacia dei vaccini studiati per la forma originaria del Sars-CoV-2. Dopo studi ben ponderati, la comunità scientifica ha fatto chiarezza rassicurando circa l’efficacia dei sieri contro le mutazioni del virus. A confermare su InsideOver la validità dei vaccini contro le varianti è stato il virologo del San Raffaele di Milano, Massimo Clementi. Quest’ultimo ha anche chiarito la possibilità di aggiornare i sieri in base alle mutazioni: “Le aziende produttrici – ha detto il professore –  si stanno già muovendo in questa direzione, qualora dovesse emergere una variante più insidiosa, oggi c’è la tecnologia adatta ad avere un nuovo vaccino in poche settimane”.

E con i monoclonali? Che prospettive ci sono di fronte alle varianti? Il discorso in questo caso è diverso perché sono necessari degli anticorpi ad hoc per combattere le nuove mutazioni. Ma la ricerca va molto spedita: già a febbraio il direttore scientifico della Eli Lilly, azienda che si occupa della produzione degli anticorpi, ha lasciato intendere che se da un lato i monoclonali vanno adeguati alle mutazioni, dall’altro gli studi per dare risposta a questa esigenza corrono veloci.

Negli Usa sospeso il bamlanivimab

Che sul fronte monoclonali esiste qualche maggiore preoccupazione sulle varianti, lo si è intuito soprattutto lo scorso 24 marzo. Negli Stati Uniti la Fda, l’equivalente oltreoceano dell’Ema, ha sospeso infatti la somministrazione del Bamlanivimab. Si tratta dell’anticorpo monoclonale prodotto dalla Eli Lilly: “Dato l’aumento sostenuto negli Stati Uniti delle varianti virali di Sars-CoV-2 resistenti a bamlanivimab somministrato da solo – si legge nel comunicato dell’Fda – e considerata la disponibilità di altre terapie con anticorpi monoclonali autorizzati che dovrebbero mantenere l’attività contro queste varianti, il governo statunitense, in coordinamento con Eli Lilly and Company, interromperà la distribuzione del solo bamlanivimab a partire dal 24 marzo 2021”. Si tratta quindi della conferma che alcuni monoclonali non sono adatti alle varianti. E che dunque le più importanti compagnie impegnate nella ricerca devono adeguarsi e procedere con nuovi studi.

Il bamlanivimab non è stato ritirato definitivamente dal commercio. Ma, così come sottolineato sempre dalle autorità sanitarie statunitensi, il suo uso deve avvenire nell’ambito di una terapia che prevede anche la somministrazione dell’Etesevimab, altro monoclonale prodotto dalla Eli Lilly. La stessa azienda statunitense già a gennaio aveva annunciato la collaborazione con la GlaxoSmithKline per ricerche comuni su nuovi monoclonali anti varianti. La sensazione è quella di una vera e propria corsa contro il tempo. Le mutazioni del virus riescono ad incidere più profondamente quando si parla di cure monoclonali.

Le speranze arrivano dall’anticorpo “bispecifico”

Di fronte all’esigenza di essere veloci nel combattere le mutazioni del Covid, le risposte della ricerca sui monoclonali non hanno tardato a dare risposte. Lo studio dell’anticorpo bispecifico CoV-X2 messo a punto gli scorsi giorni sembra proprio rispondere alla necessità di contrastare e curare le varianti ma anche di prevenire la malattia. Il risultato raggiunto dai ricercatori europei cui hanno preso parte anche quelli del Policlinico San Matteo di Pavia, potrebbe salvare molte vite grazie alla sua composizione che viene spiegata proprio dalla caratteristica di essere bispecifico. Si tratta infatti di un anticorpo a doppia azione in quanto ha la capacità di riconoscere simultaneamente due diversi antigeni del virus e inibire il loro legame con l’Ace. Quest’ultima, spiegata in termini facilmente comprensibili, rappresenta le porte di ingresso del Covid dentro le nostre cellule: luogo in cui si replica. Il doppio legame degli anticorpi bispecifici permette quindi di ridurre sensibilmente la selezione delle varianti resistenti con efficacia elevata.

La situazione in Italia

Il nostro Paese sul fronte dei monoclonali si è mosso in ritardo. Il via libera per l’uso di questi farmaci da parte dell’Aifa risale soltanto al 3 febbraio. Buona parte delle dosi che servono all’attuale fabbisogno italiano provengono dalla Eli Lilly, la quale nel nostro territorio è presente con delle proprie filiali e per la produzione si serve anche degli stabilimenti di Latina della Bsp Pharmaceuticals: “Circa l’80% dei monoclonali usati in Italia – ha dichiarato su InsideOver una fonte di Eli Lilly Italia – è prodotto dalla nostra azienda”. Dopo il disco verde sull’uso degli anticorpi, i risultati sembrano essere stati incoraggianti. In un’intervista rilasciata su InsideOver, il 16 aprile il virologo Matteo Bassetti ha posto l’attenzione su un bilancio in chiaroscuro: “In Liguria stiamo avendo ottimi risultati – ha dichiarato – ma ad oggi mi risulta che in tutta Italia sono state fatte circa mille dosi di monoclonali o poco più”.

C’è stato infatti un uso a macchia di leopardo degli anticorpi: “Ma non perché le dosi disponibili per l’Italia non bastino – ha voluto sottolineare la fonte di Eli Lilly – il vero problema è che non tutte le Regioni si sono attrezzate adeguatamente per il loro utilizzo”. Adesso però occorre capire l’impatto che le varianti potrebbero avere nel nostro Paese. In tal senso si sta correndo ai ripari. Fino allo scorso 8 aprile, secondo i dati dell’Aifa, il monoclonale Bamlanivimab, quello cioè sospeso negli Usa proprio perché inefficace contro le varianti, veniva somministrato nel 41% dei casi. Nell’ultimo report dell’Aifa, datato 23 aprile, è stato invece registrato un uso delBbamlanivimab limitato al 26.4% delle somministrazioni. È cresciuto invece al 54.9% dei casi l’uso combinato del Bamlanivimab con l’Etesevimab, mentre i mococlonali Casirivimab e Imdevimab, prodotti da Regeneron e Roche, si attestano al 18.7%.

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