La pandemia sta mostrando ancora una volta il volto lento dell’Italia: il nostro Paese è in ritardo su molti fronti. Tra questi, anche quelli relativi alle cure domiciliari contro il Covid. Soltanto 13 mesi dopo l’esplosione dell’emergenza sanitaria, la politica ha iniziato a prendere in considerazione specifici protocolli
Come sta l’Italia?
Il quadro complessivo della situazione sanitaria attualmente non è dei migliori. Il coronavirus ha messo a dura prova la macchina organizzativa generale che fa fronte all’emergenza causata dalla pandemia. Numeri di contagi e di vittime che fanno paura e che preoccupano in vista delle prossime settimane, ritenute fatidiche per superare la difficile situazione in cui il territorio nazionale è attanagliato da più di un anno. Dopo i picchi raggiunti a metà novembre e a fine marzo scorsi, la curva dei contagi è gradatamente tornata a diminuire con una media giornaliera di 14mila casi al giorno nella prima settimana di aprile. Dati ancora non soddisfacenti per poter parlare di uno spiraglio di luce. Non è da meno il numero dei decessi dove l’Italia risulta al primo posto, in termini di rapporto con la popolazione, non solo rispetto ai Paesi europei come Francia e Germania, ma anche nei confronti di Stati esteri come Brasile e Stati Uniti. Facendo riferimento sempre alla prima settimana di aprile, la media è stata di 469 vittime al giorno.
Nel frattempo anche negli ospedali si va avanti a fatica a causa dell’esaurimento dei posti letto riservati ai pazienti Covid e delle terapie intensive ormai al collasso. Questo dovrebbe spingere da un fronte ad incrementare il ritmo della campagna di vaccinazione, mentre dall’altro, ad ampliare e rivedere i protocolli per le cure domiciliari della malattia.
La cura con vitamina D
L’importanza della campagna vaccinale è senza dubbio di fondamentale rilievo per uscire fuori dalla pandemia, ma nel frattempo sarebbe anche necessario guardarsi intorno e applicare quelle terapie che, seppur blande, consentirebbero di prevenire le forme gravi di Covid. Il riferimento in questo caso è quello diretto al ruolo preponderante, riconosciuto dai ricercatori, della vitamina D. Quest’ultima, come apparso in diverse riviste scientifiche, sarebbe capace di prevenire la degenerazione della malattia una volta contratto il virus ed evitare quindi il ricorso agli ospedali. “L’uso della vitamina D – ha dichiarato precedentemente su InsideOver il fisico Mario Menichella – sarebbe importante anche perché potrebbe rappresentare un piano B, da implementare parallelamente alla vaccinazione, la quale come sappiamo sta procedendo a rilento”. Il ruolo della vitamina D nel ridurre il rischio di influenze e di malattie alle vie respiratorie e quindi anche delle gravi forme di Covid, è stato di recente dimostrato da uno studio eseguito a Tor Vergata approdato poi sulle prestigiose riviste internazionali. La ricerca eseguita ha mostrato come, al contrario, l’assenza della vitamina D, sia stata la causa di esiti fatali nelle persone che avevano contratto il virus.
Questo suggerisce quanto sia importante agire per prevenire la forma importante della malattia e, allo stesso tempo, come sia necessario eseguire in casa il maggior numero di terapie per lasciare spazio agli ospedali. Un articolo scientifico pubblicato dalla fondazione Hume afferma infatti che “l’attento studio dell’epidemiologia dei ricoverati suggerisce fortemente che si dovrebbe puntare moltissimo proprio sulle cure a domicilio dei pazienti COVID”.
I tempi lunghi della politica
Esiste solo un protocollo per le cure domiciliari anti Covid. È dello scorso 30 novembre, ma è già considerabile datato e superato. Anche questo è il segnale di quanto veloce corra il virus e, con esso, l’emergenza. Nel documento sono due i concetti chiave: vigile attesa da un lato e somministrazione di farmaci comuni, quali tachipirina o aspirina, dall’altro in caso di piccoli sintomi. Poca roba in confronto alle potenzialità delle cure domiciliari, a partire da quelle che prevedono l’uso della vitamina D. Lo hanno più volte sottolineato diversi esperti, tra cui quelli della fondazione Hume presieduta da Luca Ricolfi e dell’accademia di medicina di Torino, guidata dal professor Giancarlo Isaia. E proprio dal Piemonte si è mosso qualcosa nello scorso mese di marzo: la regione è stata la prima ad aggiornare il protocollo per le cure domiciliari, prevedendo anche il potenziamento delle Usca, Unità Speciali di Continuità Assistenziale.
La discussione soltanto un mese dopo ha varcato la soglia del parlamento nazionale. L’8 aprile il Senato ha votato, quasi all’unanimità, una mozione che impegna il governo ad attuare un nuovo protocollo. L’obiettivo è superare il principio della vigile attesa. Un paziente con pochi sintomi che ha contratto il coronavirus, potrebbe sviluppare gravi patologie mentre è domiciliato, costringendolo poi alle cure ospedaliere in un secondo momento. È proprio in questa fase che le cure a casa potrebbero intervenire, evitando la degenerazione del problema e il ricovero. In tal modo si libererebbero decine di posti letto nei nosocomi. La politica però ha tempi lunghi, molto più lenti del virus. La mozione in Senato ha rappresentato solo un primo passo, la strada da percorrere è ancora in salita.
Un ritardo colpevole e ingiustificato
Un anno fa l’Italia si è fatta cogliere di sorpresa dal virus. Molte lacune del nostro sistema sanitario sono saltate a galla improvvisamente. Tra queste anche l’organizzazione territoriale: “L’emergenza – ha dichiarato su InsideOver lo scorso 18 marzo lo studioso Pierluigi Fagan – ha fatto notare l’esigenza di virare verso una sanità di prossimità”. Intervenire cioè prima che il paziente arrivi al Pronto Soccorso. Circostanza su cui il nostro Paese si è mostrato profondamente indietro. Il vero elemento di preoccupazione è però riscontrare come, dopo mesi di guerra al Covid, l’Italia non ha fatto significativi passi in avanti.
Nel 2020 è stato ben presente l’effetto sorpresa. Nel 2021 non ci sono giustificazioni: “C’erano tutto il tempo e il know-how necessari per spostare gran parte delle cure dalla fase tardiva ospedaliera a quella precoce domiciliare”, si legge in un articolo di Mario Menichella pubblicato sul sito della Fondazione Hume. Il fatto stesso che soltanto ad aprile 2021 si è arrivati a discutere una prima mozione in Senato su un possibile protocollo nazionale, mostra come i passi in avanti sono stati lenti e poco fruttuosi. Sul campo c’è stato chi ha provato ad anticipare la politica, come i medici del “Comitato per le Cure Domiciliari Covid-19”, i quali hanno messo a punto e proposto degli specifici protocolli. Gocce in un oceano di un Paese che, anche in piena emergenza, dimostra di non poter (o voler) imparare dai propri errori.