Sin dai primi mesi della pandemia si è parlato di farmaci capaci di intervenire sul paziente prima che l’infezione da coronavirus possa degenerare. Tra questi un ruolo fondamentale viene rivestito dagli anticorpi monoclonali. A distanza di qualche mese dall’inizio del loro utilizzo in Italia, ne viene confermata la piena efficacia. Purtroppo non vengono usati su tutto il territorio nazionale.
Il ritardo dell’Italia sui monoclonali
L’importanza dell’utilizzo degli anticorpi monoclonali è stata da sempre resa nota nel momento in cui il loro utilizzo ha dato effetti più che sorprendenti nel combattere il coronavirus. Stati Uniti e Germania hanno subito colto l’occasione al volo già dallo scorso autunno per frenare l’alto numero di contagi della malattia con esito mortale. I monoclonali infatti, se somministrati al paziente nella fase iniziale dell’infezione e, cioè, entro il secondo o il terzo giorno, impediscono il formarsi della cascata infiammatoria che porta poi al sorgere dei sintomi più gravi. Questo è possibile perché i monoclonali sono degli anticorpi capaci di riconoscere i patogeni, come i batteri e i virus, e consentono all’organismo di neutralizzarli. La loro presenza aiuta a far svolgere tale compito agli anticorpi già presenti nel corpo umano che però, da soli, non bastano per arrivare a questo risultato.
Ecco perché i monoclonali non vengono usati soltanto nella fase iniziale dell’infezione ma anche quando è certo che un soggetto con particolari patologie sia stato a contatto con un positivo. Ed allora, in questo caso, si interviene per impedire l’insorgere della malattia, come si fa con il vaccino. In Italia l’utilizzo dei monoclonali è stato autorizzato in ritardo rispetto agli altri Paesi, ovvero il 5 febbraio scorso. L’ok da parte dell’Aifa è stato preceduto da diversi appelli derivanti dal mondo scientifico che ne sostenevano l’importanza.
“I monoclonali stanno funzionando molto bene”
“L’utilizzo dei monoclonali in Liguria sta andando molto bene e con ottimi risultati”. Ad affermarlo su InsideOver è Matteo Bassetti, direttore del reparto Malattie Infettive del San Martino di Genova. Il virologo è stato tra quelli che in Italia si è molto battuto affinché si accelerasse con le procedure burocratiche che hanno rallentato per diverso tempo l’utilizzo di questi anticorpi rispetto agli altri Paesi. Il professore ci racconta che su tutto il territorio ligure sono stati trattati circa un centinaio di pazienti, di cui circa 50 all’interno del San Martino: “Se queste persone non avessero fatto il monoclonale – dichiara Bassetti – molto probabilmente avrebbero avuto un percorso molto peggiore della loro malattia, perché lo scopo del monoclonale è quello di spegnere sul nascere l’infezione”.
Ad essere trattati con questi anticorpi sono state persone di età compresa tra i 30 e gli 80 anni e dunque una vasta categoria che ha confermato come la terapia sia valida su tutte le fasce d’età. Nonostante la comprovata utilità dei monoclonali, l’Italia non si è ancora conformata al loro utilizzo come forma di terapia. A confermarlo è lo stesso professor Bassetti: “Ad oggi – ci dice – mi risulta che in tutta Italia sono state fatte circa mille dosi di monoclonali o poco più. La gente mi chiede di poterlo avere pensando che nella propria Regione non ce ne siano, ma non è cosi perché tutte le Regioni lo hanno a disposizione. Se non è stato usato vuol dire che non sono stati creati dei percorsi adeguati”. L’utilizzo del monoclonale è fondamentale e sarebbe altrettanto fondamentale che ci fosse un utilizzo omogeneo in tutto il territorio nazionale. Ma ad oggi non c’è.
Superato l’ostacolo delle varianti
Lì dove è stata già sperimentata, l’azione degli anticorpi monoclonali sta dando significativi risultati. A confermarlo su InsideOver anche il virologo del San Raffaele di Milano, Massimo Clementi: “I risultati per adesso sono soddisfacenti e significativi – ha dichiarato – siamo ancora in una fase dove questi anticorpi non sono usati in modo omogeneo in Italia, ma le prime sperimentazioni sono state incoraggianti”. Ogni paziente guarito a casa dopo la cura con i monoclonali, coincide con un posto letto libero in più negli ospedali. Circostanza vitale per il servizio sanitario nazionale, alle prese con nosocomi dove complessivamente i pazienti Covid rappresentano il 39% del totale dei ricoverati. Una cifra che sfiora la soglia minima di attenzione, prevista al 40% dai protocolli del ministero della Salute.
Gli ottimi risultati raggiunti dalle cure monoclonali fanno ben sperare anche per un altro motivo. Nei mesi scorsi infatti diversi studi internazionali avevano messo in dubbio l’efficacia di questi anticorpi in presenza delle varianti del virus: “Questi farmaci hanno mostrato grande efficacia per combattere il virus – ha dichiarato ad esempio a febbraio su The Guardian lo studioso Nick Cammack – una sfida è però arrivata a Natale, quando sono apparse nuove varianti, in particolare quelle del Sudafrica e del Brasile”. E infatti due delle grandi aziende produttrici di monoclonali, Eli Lilly e GlaxoSmithKline, hanno annunciato una collaborazione per unire le ricerche e creare anticorpi in grado di vincere la sfida imposta dalle varianti. Al momento però, i farmaci presenti in Italia sembrano funzionare.
Un bilancio in chiaroscuro
Andando a guardare l’uso che si è fatto degli anticorpi monoclonali dopo il via libera dell’Aifa, ad emergere sono sia le gioie che i dolori. Sul primo fronte, la comunità scientifica sembra concorde nel considerare funzionanti le cure. I dolori arrivano da un ritardo a livello nazionale dell’utilizzo di questi specifici farmaci. Non tutte le regioni si sono messe al passo, non tutti gli italiani che ne avrebbero diritto in questo momento possono avere accesso ai monoclonali. A pesare in questo contesto è, in primo luogo, il ritardo accumulato nei mesi precedenti: l’Italia ha perso tempo nell’investire sugli anticorpi, adesso per l’intero sistema nazionale è difficile recuperare il terreno perduto.
In secondo luogo a pesare è anche la cronica impreparazione della rete sanitaria su questa tipologia di intervento. Per poter avere accesso infatti ai monoclonali, il paziente deve rivolgersi al medico di base il quale, in base alle patologie pregresse del soggetto, prescrive la cura e indica la struttura regionale di riferimento in cui ricevere il trattamento. Ad essere sollecitata dunque è quella cosiddetta “sanità di prossimità” che in Italia ha sempre mostrato gravi lacune, già prima del Covid. Il sistema non appare preparato. Ecco perché gli anticorpi sono presenti in tutte le Regioni, ma il loro uso è ancora così limitato. Un elemento che potrebbe pregiudicare l’efficacia di questi particolari farmaci.