Israele è stato il primo Paese al mondo ad aver somministrato la quarta dose di vaccino anti Covid ai suoi cittadini – dallo scorso dicembre solo per i soggetti fragili, il personale medico e gli over 60 – eppure ha fatto registrare una recente impennata di contagi. La notizia ha creato un mix tra curiosità e scalpore, soprattutto tra i non addetti ai lavori, rimasti perplessi di fronte agli ultimi numeri. L’obiezione più utilizzata è facile da immaginare: “A che serve arrivare fino alla dose numero quattro se le persone continuano a contrarre il virus e alcune di loro ci lasciano pure le penne?”.
Prima di rispondere alla domanda, è bene fornire lo scenario di fondo. In attesa che Tel Aviv estenda la somministrazione della quarta dose a tutta la popolazione di età compresa tra i 18 e i 60 anni, il tasso di vaccinazione nazionale si aggira intorno al 72% (dati aggiornati al 10 febbraio), considerando il 66% della popolazione completamente vaccinata e il 6,3% in attesa di terminare il ciclo vaccinale. Il valore di per sé non è altissimo. Basti pensare che l’Italia, giusto per fare un confronto, può vantare il 77% di popolazione interamente coperta e un 6,2% parzialmente protetta dal vaccino; la Spagna conta rispettivamente l’82% e il 5,6%, mentre il Regno Unito il 71% e 5,6%. Dunque, al netto di un’organizzazione efficace, Israele non ha niente da insegnare a nessuno, almeno in termini numerici relativi alla vaccinazione.
I numeri di Israele
Parafrasando quanto appena descritto, è vero che Israele ha vaccinato la popolazione con due, tre o addirittura quattro dosi, ma è altrettanto vero che tutto questo ha coinvolto quasi esclusivamente gli stessi individui che avevano già ricevuto i primi colpi di vaccino. In altre parole, gli “esitanti” israeliani erano e sono più numerosi rispetto ai non vaccinati presenti in altri Paesi, Italia compresa. Di conseguenza il virus ha potuto attingere ad un humus più ampio, e l’impennata di contagi è stata più netta.
Attenzione però, perché al netto dell’incremento delle infezioni, come vedremo in seguito, non abbiamo assistito a una conseguente crisi relativa a ospedalizzazioni e decessi. Per quanto riguarda le ospedalizzazioni, le autorità israeliane hanno sì dovuto fare i conti con una fiammata di ricoveri nel periodo compreso tra la fine di dicembre e la fine di gennaio – probabilmente agevolata tanto dalla diffusione della variante Omicron quanto dalle occasioni d’incontro rappresentate dalle festività incastonate in quelle settimane – ma le cifre si sono tuttavia mantenute molto basse se raffrontate a quanto rilevato altrove.
Il 31 gennaio, Israele (poco più di 9 milioni di abitanti) contava 3.678 ospedalizzati contro i 21.497 dell’Italia, i 15.826 della Spagna e i 15.807 del Regno Unito. Possiamo fare tutte le proporzioni del caso, ma il sistema sanitario di Tel Aviv ha comunque retto l’onda d’urto, pur rischiando l’apnea. In sintesi, sì: Israele ha fronteggiato un aumento dei casi nonostante la somministrazione in buona parte dei cittadini di tre dosi (o addirittura quattro). Ma: uno, non tutta la popolazione era ed è adeguatamente protetta contro Sars-CoV-2; due, l’aumento delle infezioni è stata minore che altrove e tre, i decessi, schizzati alle stelle solo a gennaio, potrebbero essere stati influenzati dai conteggi ballerini delle festività. Senza considerare, poi, la rilevante fetta di non vaccinati che ha inciso nel suddetto valore. “I nostri ospedali sono sovraffollati in gran parte con malati non vaccinati”, ha spiegato nei giorni scorsi il ministro della Salute Nitzan Horowitz dopo aver visitato il reparto Covid in un ospedale di Gerusalemme dove, ha specificato che ” la stragrande maggioranza” dei pazienti non era completamente vaccinata.
L’efficacia dei vaccini
Torniamo alla domanda iniziale: “A che serve arrivare fino alla dose numero quattro se le persone continuano a contrarre il virus e alcune di loro perdono la vita?”. Innanzitutto, dopo l’analisi dei dati relativi all’effetto della quarta somministrazione di vaccino, è emerso che la protezione contro la malattia grave aumenta di 3-5 volte, mentre la protezione dall’infezione raddoppia rispetto allo scudo prodotto da tre dosi. I dati diramati dal ministero della Salute, inoltre, hanno evidenziato come la quarta dose offra una protezione particolarmente valida agli over 60, i più a rischio dal punto di vista anagrafico.
Altro punto focale. La capacità complessiva negli ospedali di Israele si aggira adesso attorno al 72%, dopo aver raggiunto il picco del 97,9% la scorsa settimana. L’indice R (numero medio di persone infettate da ciascun portatore) è in costante diminuzione dall’inizio di gennaio ed è sceso a 0,82 (ogni dato inferiore a 1 indica che la pandemia si sta riducendo). Insomma: i valori epidemiologici principali sono in calo. “Questa quinta ondata portata dalla variante Omicron, se fossimo stati vaccinati al 95%, non l’avremmo sentita. Ciò nonostante siamo totalmente aperti, sempre grazie al vaccino, e ora abbiamo rimosso anche il Green pass“, ha dichiarato Arnon Shahar, responsabile del piano vaccinale di Tel Aviv (già intervistato da InsideOver).
Dulcis in fundo, dobbiamo fare un discorso sui vaccini in commercio. Le dosi somministrate in tutto il mondo sono state sviluppate per combattere le varianti Covid precedenti a Omicron e i suoi fratelli. Questo non significa che i vaccini che abbiamo a disposizione non siano efficaci; vuol dire, semmai, che con i prodotti attuali non siamo in grado di prevenire l’infezione, ma possiamo comunque limitare danni mortali o gravi, in modo tale da arginare ospedalizzazioni e decessi. Per assistere a una vera e propria riduzione dei contagi collegata all’effetto della vaccinazione dovremo attendere i cosiddetti vaccini di seconda generazione, ingegnerizzati per sconfiggere le ultime varianti del Covid. Insomma, quanto abbiamo visto accadere in Israele – aumento dei casi nonostante tre o quattro dosi – potrebbe ripetersi anche in altri Paesi. Ma, come detto, non bisogna preoccuparsi. Almeno, non per il momento e in attesa delle prossime armi che ci fornirà la scienza.