Khalid Sheikh Mohammed, la mente dell’11/9

Veterano della resistenza dei mujāhid all’invasione sovietica dell’Afghanistan. Laureato in ingegneria. Ossessionato dai dirottamenti aerei. Scrivere degli attentati dell’11 settembre 2001 equivale a fare il suo nome. Eppure no, non stiamo parlando di Osama bin Laden, anche se la descrizione gli calza a pennello. Stiamo parlando di Khalid Sheikh Mohammed, la mente profonda dell’11/9.

Khalid Sheikh Mohammed, popolarmente noto come lo Sceicco, è stato uno dei terroristi islamisti più importanti dell’epoca d’oro del jihadismo. La data e il luogo di nascita di Mohammed non sono mai stati accertati definitivamente – potrebbe essere nato in Pakistan o in Kuwait, nel 1964 o nel 1965 –; quel che è certo è che suo padre fosse un predicatore della scuola deobandi, che suo nipote sia Ramzi Yousef, uno dei protagonisti dell’attentato al World Trade Center del 1993, e che la Commissione Nazionale sugli Attacchi terroristici contro gli Stati Uniti lo abbia definito “l’architetto principale degli attacchi dell’11/9”.

Dopo aver trascorso l’infanzia e la prima parte dell’adolescenza in Pakistan, dove impara l’urdu e il balochi, viene iniziato nei Fratelli Musulmani e viene allevato al culto del padre – l’Islam deobandi –, Mohammed si trasferisce negli Stati Uniti nel 1983, all’indomani del conseguimento del diploma, per studiare all’università. L’esperienza sarà breve, tre anni, ma sufficiente a sviluppare i primi sentimenti di astio verso gli Stati Uniti.



Nel 1987, forte di una laurea in ingegneria meccanica ottenuta in un’università americana, Mohammed fa ritorno in Pakistan. È poco più che ventenne, ha tanti sogni, ma il richiamo del Jihād avrà il sopravvento: insieme ai fratelli parte alla volta dell’Afghanistan come mujāhid, un’esperienza destinata a cambiare la traiettoria della sua vita.

Di ritorno dall’Afghanistan, dove è rimasto stregato dalla figura di ʿAbd Allāh Yūsuf al-ʿAzzām, Mohammed è un uomo profondamente cambiato. Vuole dedicare la vita all’esportazione globale dell’Islam praticato dall’allora emergente Al Qaida. Un ideale che lo avrebbe portato nelle Filippine in guerra contro il separatismo islamista di Abu Sayyaf.

1993-95, il triennio più misterioso di Mohammed. Triennio caratterizzato da un attentato semiriuscito a New York, nel parcheggio sotterraneo del World Trade Center, e da una super-cospirazione passata alla storia come il progetto Bojinka. Due trame terroristiche avvenute in luoghi tra loro distanti, ma legate da un filo conduttore: Mohammed.

Il progetto Bojinka, pianificato nelle Filippine da Al Qaida e al-Jamāʿah al-Islāmiyyah, avrebbe dovuto consacrare l’ingresso di Osama bin Laden nell’Olimpo dei jihadisti. Trattavasi, invero, di uno dei più grandi complotti terroristici studiati da una realtà jihadista: undici voli da dirottare e/o da far esplodere, l’assassinio di Giovanni Paolo II, la distruzione del quartier generale della Central Intelligence Agency.

L’intera galassia jihadista sarebbe stata mobilitata per reperire i fondi necessari alla costruzione delle bombe artigianali, manifatturate da Mohammed in persona. Decine di soldati sarebbero stati inviati in lungo e in largo le Filippine per testare i prodotti di Mohammed e la fattibilità del piano terroristico. Tra gli esperimenti più eclatanti, il piazzamento di una bomba sul PAL434, l’11 dicembre 1994, atterrato nonostante l’esplosione avvenuta in volo.



Bojinka avrebbe dovuto inaugurare in grande stile la campagna di Jihād globale di Al Qaida. Qualcosa, però, andò storto a causa della più imprevedibile delle variabili: il caso. Un rogo in uno degli appartamenti utilizzati dalla cellula di Mohammed per produrre le bombe artigianali, avvenuta alla vigilia dell’approdo a Manila del Papa in occasione della Giornata mondiale della gioventù del 1995, avrebbe condotto le autorità, fino ad allora ignare dell’esistenza di Bojinka, a sgominare l’intera operazione.

Mohammed, onde evitare l’estradizione negli Stati Uniti, avrebbe abbandonato le Filippine per i porti più sicuri del Medio Oriente e dell’Africa subsahariana. Ma l’idea del dirottamento in serie con cui fare il “grande botto”, Bojinka, non sarebbe finita nel dimenticatoio. L’idea, al contrario, sarebbe sopravvissuta, in quanto ossessivamente presente nei discorsi fra Mohammed e bin Laden, e portata avanti in quel di Amburgo. E l’11 settembre 2001, a sei anni dalla débâcle di Manila, avrebbe preso forma.

2002. L’equivalente americano e su larghissima scala dell’operazione Ira di Dio, la Guerra al Terrore pianificata dagli strateghi neoconservatori di George Bush Jr, è ufficialmente iniziata. I talebani stanno combattendo l’esercito degli Stati Uniti. La Casa Bianca sta mettendo in piedi la coalizione dei volenterosi che a breve dovrà intervenire in Iraq. La guerra dei droni è cominciata, sembra in Yemen, con l’uccisione di alcuni qaedisti.

2002. Mentre gli Stati Uniti conducono la loro Guerra al Terrore, la Russia conduce la sua in Cecenia e dintorni, e la Cina è impegnata nella propria nello Xinjiang. Il filo conduttore delle tre guerre al terrore è Al Qaida, l’organizzazione che ha risvegliato sentimenti di separatismo religioso in tutta l’Eurafrasia, dal Daghestan alle Filippine, che produce emuli, che si unisce in matrimoni di convenienza con altre realtà dell’Internazionale jihadista e che esporta, oltre che idee, armi e combattenti.

Nel 2002, mentre Al Qaida è in piena fase ascendente, per Mohammed è l’inizio della fine. A sancire la caduta del primo pezzo della Trinità del Jihād globale sarà l’omicidio in mondovisione di un giornalista statunitense, Daniel Pearl, sequestrato a Karachi da un commando agli ordini di Mohammed e poi da questi decapitato davanti alle telecamere. È febbraio.



Dopo la pubblicazione del video dell’uccisione di Pearl, costretto a sconfessare l’America attraverso una serie di frasi pronunciate sotto minaccia, parte la caccia all’uomo. Le indiscrezioni vogliono che l’esecuzione sia avvenuta su mandato di Mohammed, sebbene le prove inconfutabili del suo coinvolgimento arriveranno (molti) anni più tardi, ed è così che sulle sue tracce si mettono la Central Intelligence Agency e l’ISI pakistana.

La prima operazione ha luogo nel primo anniversario dell’11/9, a Karachi. Operativi dell’ISI, supportati da intelligence della Cia, entrano in un alloggio nel quale si troverebbe lo Sceicco. Lui non c’è, ma il blitz è tutto fuorché un fiasco: uno degli identificati (e degli arrestati) è Ramzi bin al-Shibḥ, membro della cellula di Amburgo e colui che avrebbe dovuto essere il “ventesimo attentatore” l’11 settembre 2001.

Il secondo tentativo, il primo marzo 2003, è quello giusto. Una squadra mista, composta da agenti ISI e operativi SAC – divisione specializzata in operazioni coperte della CIA –, cattura lo Sceicco a Rawalpindi, la “sorella di Islamabad”. L’inizio di una detenzione infinita, con capolinea Guantanamo, e particolarmente violenta, a causa del frequente ricorso alle tecniche di interrogatorio potenziato su Mohammed – dall’annegamento simulato alla reidratazione rettale –, che non mancherà di suscitare le proteste dell’internazionale dei diritti umani.

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