Sato Tetsutaro, il Machiavelli del Giappone Meiji

Il Giappone, il «Paese del Sol levante» i cui abitanti discendono dalla dea Amaterasu, è sempre stato la mosca bianca dell’Asia orientale. Culturalmente appartenente alla sinosfera, eppure spiritualmente unica e identitariamente «isolata» – per dirla alla Samuel Huntington –, la Terra dello shintoismo ha storicamente giocato un ruolo-chiave nella determinazione degli equilibri regionali in virtù della posizione geografica detenuta.

La nazione arcipelago era ieri, è oggi, e continuerà ad essere domani, il contenitore dell’espansionismo russo in Estremo Oriente e il costrittore dell’Impero celeste in una condizione tellurocratica. Un ruolo unico, quello del Giappone, che né la Corea del SudTaiwan possono e potranno mai esercitare, e che spiega perché gli Stati Uniti abbiano profittato dell’esito della Seconda guerra mondiale per satellizzarlo.

Lungi dall’essere un satellite come tanti altri, cioè un automa senza autonomia, il Giappone continua a conservare una certa libertà di manovra in vari settori e si muove nel Pacifico nordoccidentale, oltre che per soddisfare le esigenze di sicurezza degli Stati Uniti – la salvaguardia delle catena di isole –, in ottemperanza a fondamentali dottrinali propri. Fondamentali che non nascono oggi, in quanto risalenti al passato imperiale, e alla cui forgiatura ha contribuito in maniera significativa Satō Tetsutarō, il più grande stratega e teorico militare dell’era Meiji.

Satō Tetsutarō nacque a Tsuruoka il 22 agosto 1866. Figlio di due sudditi agli ordini dei padroni del feudo hōnai, il dominio dell’area di Tsuruoka, Satō fu cresciuto da un signore locale, Yasuyuki Satō, dal quale fu adottato in tenera età e dal quale prese il nome.

Allevato in maniera rigida e marziale, Satō crebbe con due passioni: la storia e la patria. La prima lo rese un divoratore di libri. La seconda lo condusse fino a Tokyo, all’interno dell’Accademia navale imperiale del Giappone. Laureatosi nel 1887, risultando il quinto migliore del corso, Satō avrebbe rapidamente scalato i vertici delle forze armate, passando da mezzomarinaio a primo tenente in soli cinque anni.

Allo scoppio della Prima guerra sino-giapponese, nel 1894, Satō si sarebbe ritrovato improvvisamente a capo della Akagi, causa la morte in combattimento del capitano nel corso della battaglia del fiume Yalu. Ferito, privo di esperienza nel comando di una nave e circondato da un equipaggio in panico, Satō sarebbe riuscito comunque nell’impresa di divincolarsi dalla flotta cinese e di riparare in patria.

Il “miracolo” di Satō non sarebbe passato inosservato ai piani alti. Il tenente aveva delle qualità, tanto strategiche quanto leaderistiche, e sarebbe stata loro premura coltivarle, svilupparle e farle sbocciare. Fu deciso di dare una forma a quel talento grezzo inviando Satō a scuola di strategia navale dalle principali potenze talassocratiche dell’epoca: Inghilterra e Stati Uniti.

 

Tornato in patria nel 1902, dopo quattro anni di intensi studi, Satō si dedicò alla stesura di un trattato concepito come la bussola strategica della Marina giapponese. Influenzato dal pensiero di teorici militari come Alfred Thayer Mahan – il coniatore del concetto di «potenza marittima» –, poi adattato al contesto nipponico, Satō pubblicò la Bibbia dell’epoca Meiji: Sulla difesa dell’Impero.

Satō era dell’idea che il Giappone, in quanto nazione arcipelagica, dunque intrinsecamente marittima, avrebbe dovuto riorientare le spese militari dalla terra all’acqua. L’esperienza britannica insegnava che fortificazioni costiere e una piccola armata erano più che necessarie alla difesa della nazione, ma che per la proiezione oltremare occorreva una flotta grande e possente. Il Giappone, in sintesi, non sarebbe riuscito a stabilire avamposti nei domini russi e cinesi fino a che non si fosse dotato di una flotta capace di vincere la battaglia sulle acque.


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La visione di Satō avrebbe avuto un impatto tremendo e tangibile allo scoppio della guerra russo-giapponese. Lo stratega persuase gli ambienti militari a seguire una linea innovativa: logorare il morale e la forza dei russi attraverso una battaglia navale permanente. Russi che, Satō lo aveva appreso in Occidente, erano digiuni di esperienza belligena in acque tanto vaste.

Impossibilitati a battere i giapponesi sulla terraferma, e costretti a subire una sequela di sconfitte ignominiose, i russi si sarebbero arresi dopo un anno e mezzo di combattimenti. La presenza di Satō si sarebbe fatta sentire in maniera particolare durante la battaglia di Tsushima, l’ultima e decisiva, terminata con 117 morti e tre torpediniere affondate da parte giapponese e con circa 5.000 morti e la flotta quasi interamente annichilita da parte russa.

Nel 1905, sconfiggendo l’Impero zarista e consacrandone l’avvio verso l’implosione, l’Impero giapponese sarebbe entrato nella storia, in senso letterale, facendo ingresso nel consesso delle grandi potenze del globo – una prima unica per un attore non occidentale – e gettando le fondamenta di quello che i posteri avrebbero ribattezzato il Nuovo ordine dell’Asia orientale (Tōa Shin Chitsujo).

Il ruolo determinante giocato nella guerra russo-giapponese sarebbe valso a Satō il rispetto in patria e la popolarità all’estero, come dimostrato dal soprannome ricevuto dai cronisti occidentali: il “Mahan del Giappone”.

Satō avrebbe trascorso gli anni successivi ad approfondire la propria dottrina, mettendo la firma su vari libri di strategia navale, e a fare campagna contro il modus cogendi del potente ma miope apparato militare-industriale. Satō era dell’idea, infatti, che la potenza navale dovesse servire al Giappone anzitutto per questioni di autodifesa, in secondo luogo per avere una leva di pressione nei confronti di russi e cinesi e, infine, per dotarsi di una forza di proiezione nell’Indo-Pacifico da utilizzare contro gli Stati Uniti.


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Lo stratega, che aveva vissuto e studiato nell’anglosfera, aveva assorbito la forma mentis di britannici e americani. Aveva intuito che il Giappone, una volta raggiunta la maturazione imperiale, sarebbe stato aggredito da quelle stesse potenze che all’epoca lo stavano corteggiando in funzione antirussa. Un destino ineluttabile. E ad aggredirlo, probabilmente, sarebbero stati gli Stati Uniti, da Satō definiti il “nemico ipotetico” dell’avvenire nipponico. E il Giappone, espandendosi in Estremo Oriente con una flotta perlopiù adatta a soddisfare le esigenze securitarie dell’arcipelago, sarebbe andato incontro a una tremenda disfatta.

Coerentemente con il proprio pensiero, che gli avrebbe alienato le simpatie delle alte gerarchie, Satō si sarebbe opposto con forza all’adesione del Giappone al Trattato navale di Washington del 1922. Una trappola che, secondo lo stratega, era stata concepita dagli Stati Uniti allo scopo di cristallizzare gli equilibri del primo dopoguerra a loro favore (e a detrimento di tutte le altre potenze).

Emarginato dalle stanze dei bottoni, e trattato alla stregua di un eroe caduto in disgrazia, Satō morì a Tokyo all’acme della Seconda guerra mondiale, il 4 marzo 1942, solo e inascoltato.

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