I turbolenti anni Novanta dell’America, cominciati con la guerra in Iraq e terminati con l’intervento in Iugoslavia, costituiscono una delle epoche più bistrattate e incomprese dalla storiografia contemporanea. Decade del momento unipolare per alcuni, principio dell’egemonia politico-culturale del Partito Democratico per altri, età di fondamentale translatio imperii per pochi o nessuno.
Gli anni Novanta andrebbero riscoperti, ristudiati da cima a fondo, perché sono il tempo in cui ha avuto inizio la trasformazione dell’America da democrazia popolare e libertaria a post-democrazia elitaria e securitaria, da campione del mondo libero ad alfiere dei regimi di sorveglianza.
Atto fondativo di questo epocale processo trasformativo, oggi più che mai visibile – come dimostrato dall’America post-Patriot Act, dal caso Edward Snowden e dalla normalizzazione della censura –, è stato sicuramente l’assedio di Waco del 1993. E uno dei fenomeni di accompagnamento più distintivi di questa fase di transizione è stato il mutare radicale dell’espressione del dissenso antigovernativo, divenuto da un giorno all’altro destabilizzante, mortifero e terroristico. Un mutare avvenuto e fermentato nel silenzio, all’ombra di una pace sociale soltanto apparente e della cui rilevanza le autorità si sarebbero rese conto il 19 aprile 1995 a Oklahoma City.
L’attentato di Oklahoma City è e resta ancora oggi il più grave atto terroristico condotto sul suolo statunitense da attori domestici guidati da moventi antigovernativi. 168 morti e 700 feriti; tante furono le vittime dell’odio cieco nutrito da Timothy McVeigh nei confronti delle istituzioni, del cosiddetto establishment. Soltanto Osama bin Laden, sei anni dopo, cioè l’11 settembre 2001, sarebbe riuscito a provocare più dolore e distruzione agli Stati Uniti.
Come McVeigh diventò l’attentatore di Oklahoma City è storia: storia nota. Reduce della guerra in Iraq, dove aveva servito con coraggio ma era rimasto traumatizzato dal celeberrimo attacco aereo sulle truppe iraqene in ritirata lungo l’autostrada 80, non sarebbe mai riuscito a reintegrarsi nella società a causa di una sensazione di profondo malessere provata nei riguardi dello Stato.
Vittima di un possibile disturbo da stress post-traumatico, McVeigh sarebbe rapidamente caduto in un vortice depressivo, accentuato dallo sviluppo di una ludodipendenza, e avrebbe cominciato a serbare un rancore crescente verso il fisco – perché ritenuto favorevolmente calibrato in direzione dei ricchi – e le forze dell’ordine – alcuni episodi di cui era stato spettatore inerme, come il caso Ruby Ridge, lo avevano convinto che servissero più ad opprimere l’onesto cittadino che a reprimere il criminale.
Il punto di svolta, per McVeigh, sarebbe arrivato il 19 aprile 1993, giorno in cui un incendio doloso di dubbia origine pose fine all’assedio di Waco – un confronto tra i membri di una setta apocalittica, i Davidiani, e le autorità – provocando la morte di settantasei persone, tra cui venticinque bambini. Waco fu la prova, agli occhi di McVeigh, che gli Stati Uniti avevano cessato di essere l’Impero della Libertà e che un nuovo regime era stato instaurato: antidemocratico, anti-libertario, securitario, totalitario.
A partire dal dopo-Waco, insieme ad un ex commilitone, Terry Nichols, McVeigh avrebbe cominciato a raccogliere materiale utile a consumare un attentato spettacolare. Non sapeva bene chi, cosa e dove colpire, ma di una cosa era più che certo: l’obiettivo avrebbe dovuto essere governativo.
Prima che la scelta ricadesse sull’edificio federale Alfred P. Murrah – un colosso di cemento ospitante gli uffici di diverse agenzie, tra le quali ATF, DEA e USSS –, McVeigh aveva ponderato l’assassinio della procuratrice generale Janet Reno o del tiratore scelto Lon Horiuchi, rispettivamente protagonisti dell’assedio di Waco e del caso Ruby Ridge.
La scelta dell’obiettivo, alla fine, sarebbe ricaduta sull’Alfred Murrah per una questione di dimensione del danno: McVeigh non voleva eliminare una persona, rischiando che la vendetta si fermasse lì in caso di arresto, ma privare l’establishment di quanti più servitori possibili. E avrebbe scelto una data simbolica per consumare l’attentato: il 19 aprile, anniversario dell’assedio di Waco e della battaglia di Lexington.
McVeigh, con il supporto fondamentale di Nichols, avrebbe trascorso il 1994 a raccogliere materiale utile a provocare il collasso dell’erculeo edificio multipiano. Materiale che, per motivi di economia e per non destare sospetti, sarebbe stato trovato nel nitrato di ammonio e nel nitrometano e conservato all’interno di un magazzino in affitto.
Guardate alle persone come se fossero i soldati imperiali in Guerre stellari: potrebbero anche essere innocenti se prese singolarmente, ma ciò che le rende colpevoli è il servire l’Impero Galattico.
La mattina del 19 aprile 1995, come da programma, McVeigh parcheggiò davanti all’Alfred Murrah un camion contenente una micidiale bomba a base di più di due tonnellate di nitrato di ammonio, miscelate con mezza tonnellata di nitrometano e più di un quintale di tovex, e attese le nove per la detonazione – un omaggio ad un episodio-chiave dei The Turner Diaries, la Bibbia dei suprematisti bianchi.
L’esplosione, che avviene alle 9 e 2 minuti, è devastante, terrificante. Un terzo dell’edificio Alfred Murrah collassa immediatamente, dove era parcheggiato il furgone si apre una voragine profonda tre metri e larga nove, l’onda d’urto crea danni a più di trecento edifici circostanti e causa la distruzione di quasi cento vetture, i sismometri registrano una magnitudo 3 sulla scala Richter. A terra 168 morti e circa 700 feriti.
McVeigh sarebbe stato arrestato sull’interstatale 35, in fuga da Oklahoma City, a neanche due ore dall’attentato. La polizia aveva piazzato controlli ovunque, pur avendo in mente un altro genere di attentatore – jihadisti o narcos –, e a McVeigh fu trovata un’arma non registrata in auto ed un bigliettino compromettente inerente un ordine di TNT. Una settimana più tardi sarebbe giunto il momento di Nichols, all’interno della cui abitazione furono trovate più prove che indizi: nitrato di ammonio, manuali su come costruire bombe artigianali, materiale antigovernativo, una mappa di Oklahoma City.
Nel 1997, un anno e mezzo dopo l’attentato, McVeigh fu condannato a morte e Nichols all’ergastolo. Mai pentitosi del massacro, il cui movente avrebbe dettagliato durante e dopo il processo, McVeigh fu giustiziato l’11 giugno 2001 mediante iniezione letale.
L’attentato di Oklahoma City avrebbe lavorato in senso contrario alla speranza-aspettativa di McVeigh: nessuna insurrezione del popolo contro le istituzioni, ma, al contrario, avvio di una campagna investigativa su scala nazionale avente come obiettivo la caccia agli estremisti domestici e introduzione di leggi più restrittive in materia di acquisto di determinati beni, come il fertilizzante.
A partire dal dopo-Oklahoma, inoltre, i nuovi edifici federali vengono edificati rispondendo a nuovi criteri di sicurezza – materiale resistente a possibili aggressioni con mezzi pesanti e localizzazione strategica, cioè lontana da aree trafficate e vulnerabili ad attentati con veicoli.
L’edificio Alfred Murrah, oggi, non esiste più. Ciò che sopravvisse a quella detonazione cataclismica fu successivamente buttato giù mediante una demolizione controllata. Al suo posto, invece, si trova il Memoriale nazionale di Oklahoma City, dove ogni anno, la mattina del 19 aprile, gli abitanti della metropoli si recano per osservare un minuto di silenzio alle 9 e 2 minuti.
Per quanta riguarda McVeigh, che durante la prigionia all’ADMAX diventò oggetto di idolatria anche tra i detenuti jihadisti – celebri i tentativi del qaedista Ramzi Yousef di convertirlo all’Islam –, il suo legato è tutt’altro morto con lui. Il suo gesto, invero, ha fatto sì che cominciasse a essere venerato come un martire dai nazionalisti bianchi di tutta l’America, in particolare da coloro che credono nell’esistenza del cosiddetto “governo di occupazione sionista”, che da quel 19 aprile 1995 hanno un dio minore al quale prostrarsi, al quale ispirarsi.