Tra le figure più interessanti della storia, complessa e tutt’altro che lineare, dell’Unione Sovietica spicca per enigmaticità quella di Lavrentij Berija (1899-1953), capo della polizia segreta dell’Unione Sovietica sotto Stalin e Primo Vicepresidente del Consiglio dei ministri dell’Unione Sovietica per un breve periodo nel 1953. Un uomo ritenuto come l’anima nera, il deus ex machina delle repressioni più dure della dittatura staliniana, se non addirittura l’istigatore di molte delle paranoie che portarono l’ex braccio destro di Lenin a incentivare cicliche fasi di purghe e deportazioni di massa. Tanto odiato dallo stesso apparato del Partito Comunista dell’Unione Sovietica da finire da esso liquidato poco dopo la morte di Stalin. Ma le cose stanno davvero così? Berija, “boia” di Stalin, fu l’eminenza grigia della dittatura o ne fu un ingranaggio e, a conti fatti, l’ultima vittima come capro espiatorio di Stalin? La risposta tuttora divide gli storici e va analizzata comprendendo meglio la vita di Berija.
Nato in Abcasia, regione della Georgia, nel 1899 e dunque conterraneo dello stesso Stalin Berija trascorse, fino alla Rivoluzione bolscevica del 1917, una gioventù da studente nella sua terra natale. Con l’insurrezione di Lenin Berija entrò a far parte dapprima dell’Armata Rossa e, durante la guerra civile contro i controrivoluzionari, nella Ceka (Commissione Straordinaria di tutte le Russie, per Combattere la Controrivoluzione e il Sabotaggio), di cui fu membro dal 1920 contribuendo a guidare la repressione delle forze anticomuniste nella sua terra natale. Fu in questo contesto che avvene il primo, importante contatto con Stalin.
Berija mantenne per tutta l’esistenza un legame forte con la sua terra, molto maggiore di quello di Stalin che fu sicuramente meno amato del suo futuro braccio destro in Georgia, tanto da arrivare a giocare da calciatore una stagione intera, quella 1925-1926, con la maglia della Dinamo Tibilisi, club destinato a segnare la storia dello sport della piccola repubblica caucasica. Nel frattempo, Berija si era fatto strada dentro le forze segrete sovietiche: vicecomandante della Ceka in Georgia dopo la repressione dei menscevichi a soli ventitré anni, nel 1924 seguì Stalin nella sua corsa al potere, guidò la repressione dei sommovimenti nazionalistici a Tbilisi, fu nominato membro di vertice dell’Ogpu, l’erede della Ceka, in Transcaucasia, guidandone la sezione georgiana dal 1926.
Negli anni Trenta, dopo che Stalin si era liberato dei vecchi comunisti georgiani, Berija guidò la repubblica caucasica. “Berija non aveva valori, era sempre pronto a scaricare ideologie o relazioni personali, e a Stalin questo piaceva di lui”, ha scritto lo storico Lev Lurie. Ciononostante, i risultati amministrativi premiarono un indubbia capacità organizzativa che, come vedremo, tornerà utile a Berija in campi ben più ambigui in futuro: la Georgia si sviluppò come potenza agricola interna all’Urss, produsse quantità ingenti di vino, thé, agrumi, conobbe una fase di sviluppo economico nella fase in cui il resto dell’Unione Sovietica era percorso dai problemi della de-kulakizzazione e dalla guerra dello Stato ai contadini renitenti alla collettivizzazione, che sarebbero sfociati nella grande carestia ucraina indotta dal potere sovietico.
Lavoratore instancabile, cacciatore di tracce e indizi su potenziali sospetti, crudele nella repressione del dissenso antisovietico, fedelissimo a Stalin che ne apprezzò molto la capacità di lavorare nell’ombra senza manifestare ambizioni palesi Berija divenne presto insostituibile per il leader sovietico e ne rappresentò il proconsole nella sua terra natale. Nel processo di avvicinamento al Grande Terrore, con l’inizio delle purghe di Stalin nel 1934 Berija le promosse nella sua regione di pertinenza, aprendosi la porta a un ruolo decisivo su scala nazionale.
“Lasciate che i nostri nemici sappiano che chiunque tenti di sollevare una mano contro il nostro popolo, contro il volere del partito di Lenin e Stalin, verrà schiacciato e distrutto senza pietà”. Così nel 1937 parlava Berija mentre il potere sovietico si abbatteva inesorabilmente contro i suoi nemici.
Ciononostante, per il cinico Berija ogni tipo di repressione doveva, a suo avviso, avere una giustificazione politica. Amorale e molto diretto, conoscitore della macchina dello Stato, Berija si accorse che il fiume di sangue fatto scorrere da Stalin e dalla polizia segreta, ribattezata Nkvd, tra il 1937 e il 1938 rischiava di aprire varchi incolmabili in diverse strutture del partito e delle forze armate, come del resto sarebbe apparso chiaro con le disfatte nella prima fase della Seconda guerra mondiale durante l’invasione della Finlandia e l’attacco tedesco all’Urss. La repressione andava fermata per razionalizzarla e portarla in forma più sistemica, sosteneva Berija quando dopo la caduta di Nikolaj Ezov, suo predecessore (giustiziato nel 1940) prese il possesso dell’Nkvd nel 1938.
La truppa dell’Nkvd fu epurata, con metà del personale che venne rimosso e rimpiazzato con elementi leali a Berija, molti dei quali provenienti dal Caucaso e, ricorda Russia Beyond the Headlines, “nel 1938 (l’ultimo anno del mandato di Ezhov come capo dell’Nkvd), nell’Urss furono condannate a morte 328.000 persone; nel 1939, con Berija in carica, la cifra scese a 2.600”.
Meno violenza, più repressione: Berija iniziò a organizzare per conto di Stalin un tipo diverso di controllo sull’opposizione, che passò dalla pura e semplice repressione politica all’avvio delle prime politiche di contenimento di gruppi etnici ritenuti ostili perché ritenuti quinte colonne di potenze straniere. Inoltre, attraverso Berija, Stalin chiedeva dossier su tutti i suoi plenipotenziari al fine di alimentare contrasti interni tra loro e non farne crescere mai uno rispetto ad un altro.
Nel 1941 Berija divenne Commissario Generale per la Sicurezza di Stato, un alto grado di stampo militare, nella gerarchia della polizia sovietica dell’epoca: già da tempo si era distinto per operazioni che per l’Urss avevano carattere strategico nell’imposizione del suo dominio. Tra questi si segnala uno degli atti più brutali del secondo conflitto mondiale, l’eccidio di Katyn risoltosi nell’esecuzione di massa di circa 14.500 ufficiali polacchi catturati nel 1939 per decapitare la classe dirigente post-bellica del Paese. L’Nkvd di Berija gestì e organizzò questo massacro nella primavera del 1940. Come ha ricordato Riccardo Luciani, autore della biografia di Berija (Il Boia di Stalin) pubblicato da Idrovolante, “durante il periodo bellico e nella successiva liberazione dei territori dall’occupazione nazista, Berija fece deportare, numerosi gruppi etnici presenti considerati “collaborazionisti” tra cui i Calmucchi, i Ceceni, gli Ingusci, i Caraciai, i Balcari e i Tatari” contribuendo al consolidamento in senso etno-nazionalista dell’Unione Sovietica. Si stima che decine di migliaia di persone persero la vita in questo processo che coinvolse oltre mezzo milione di uomini, donne e bambini.
Con Berija al timone, inoltre, i campi di lavoro forzato si riempirono e lo sfruttamento della manodopera ottenuta in questo modo ai fini dello sforzo bellico si moltiplicò. Berija fu inoltre responsabile dell’organizzazione di un poderoso programma di spionaggio: quando tra il 1944 e il 1945 si seppe che gli Stati Uniti stavano lavorando alla bomba all’uranio, Berija ottenne che gli fosse affidato il compito di dirigere lo spionaggio e la ricerca in materia. Il risultato fu un contributo decisivo nella corsa sovietica all’atomica che avrebbe avuto successo nel 1949 con il primo test delle forze armate di Mosca. Su ordine di Stalin, Berija mise in piedi una gigantesca organizzazione per la ricerca nucleare, il cosiddetto Goskomitet n. 1, che garantì l’approvvigionamento segreto di materiale, impianti, servizi logistici e il reclutamento del personale nelle varie città di ricerca sparse per l’Unione.
Guidato da un rapporto di fedeltà con Stalin paragonabile a quello avuto da Heinrich Himmler con Adolf Hitler, ma meno abbagliato rispetto al gerarca nazista dall’ascendente del suo capo, leale all’idea brutale di gestione del potere incarnata dal dittatore georgiano, Berija fece carriera dopo i “servizi” della seconda guerra mondiale.
Nel 1946 entrò nel Comitato Centrale del Pcus e fu promosso al ruolo di vice primo ministro, numero due di Stalin, con delega alla sicurezza nazionale. Su ordine di Stalin, gestì la repressione delle forze anticomunsite nei Paesi esteuropei occupati dall’Armata Rossa nella guerra all’Asse, la formazione delle polizie segrete dell’Est, l’epurazione dei marxisti non ortodossi, come il vicepremier ceco Rudolf Slansky (impiccato nel 1952) e portò avanti l’ultima, grande campagna di epurazione della sua carriera. Stiamo parlando delle investigazioni sul presunto complotto dei medici ebrei che tra il 1948 e il 1952 culminarono nell’arresto e nell’esecuzione di 2mila persone accusate di complottare per favorire la morte di Stalin, tra cui il capo del partito a Leningrado Pëtr Popkov e il primo ministro della Repubblica russa, Michail Rodionov.
L’organicità di Berija al partito di Stalin lo pose ai primi posti per la successione al dittatore dopo la sua morte nel marzo 1953. Nella primavera del 1953, nominato vice dal premier Georgij Malenkov, alleato e fedelissimo di Stalin, formò con questi un’alleanza per contrastare il Ministro degli Esteri Molotov e Nikita Chruschev e consolidare l’eredità di Stalin ai vertici dello Stato, centralizzando la burocrazia e dando via a cosmetiche riforme nella gestione del dissenso per conquistarsi un ascendente nelle varie branche dello Stato. La liberazione di un milione di prigionieri dei gulag e la messa al bando della tortura nelle carceri sovietiche mostrarono, a loro modo, la spietatezza dei metodi utilizzati in precedenza; Berija era però troppo legato al passato per non finire travolto da un contesto che remava per il superamento dell’eredità di Stalin e del suo metodo paranoico e brutale di gestione del potere.
Berija fu accusato da Molotov e Chruschev di voler, in particolar modo, cercare una sintonia con l’Occidente dopo che nel giugno 1953 violentissime proteste scoppiarono a Berlino Est contro il regime della Repubblica Democratica Tedesca. In una riunione del Praesidium del Soviet Supremo del 25 giugno, fu sferrata a Berija l’accusa di spionaggio a favore del Regno Unito e delle potenze occidentali. Quindi, nella riunione Berija fu destituito e al termine della seduta arrestato con l’assenso di Malenkov, che aveva lasciato strada al partito riformista vincitore del braccio di ferro. La Pravda annunciò l’arresto di Berija solo il 10 luglio, dandone il merito a Malenkov e facendo riferimento alle “attività criminali contro il Partito e lo Stato” da parte di Berija che, nel dicembre successivo, fu processato per direttissima da una corte marziale e fucilato il 23 dicembre 1953. Organico totalmente allo stalinismo, Berija rappresentò a tal punto la continuità con il dittatore da rappresentare il vero ostacolo da togliere di mezzo per organizzare la transizione. La sua caduta fu tanto rapida quanto era stata la sua ascesa nei venticinque anni precedenti: e questa sua incapacità di durare a lungo senza Stalin sembra confermare come l’architetto dei peggiori crimini del regime ne sia stato, in fin dei conti, la prima e ultima vittima, essendo stato l’unico esponente a pagare sulla propria pelle le conseguenze di uno zelo repressivo che Berija aveva, anno dopo anno, alimentato con forza.