La storia del genocidio cambogiano nella Kampuchea Democratica

Per genocidio cambogiano si intende l’epurazione del popolo cambogiano avvenuto in Cambogia a cavallo tra il 1975 e il 1979, ai tempi del governo comunista guidato da Pol Pot. In quattro anni, quando il Paese era stato rinominato dai Khmer Rossi Kampuchea Democratica, morirono uno svariato numero di persone. C’è molta discordanza sui dati, anche se gli storici ritengono che siano stati uccisi da 1,3 milioni a 3 milioni di cambogiani.

Secondo alcuni calcoli, questo genocidio avrebbe spazzato via il 25% dell’allora popolazione della Cambogia, senza considerare tutti i cittadini morti in un secondo momento per cause collegabili alla follia comunista di Pol Pot. Non tutti lo sottolineano a dovere ma, considerando le proporzioni del processo e l’impatto che questo ha avuto sulla popolazione, possiamo considerare il genocidio cambogiano come un caso senza precedenti nella storia dell’uomo.

Le ragioni del genocidio cambogiano sono da ricercare nel progetto ideologico di Pol Pot. L’ispiratore di una delle più grandi catastrofi del XXI secolo voleva esportare la Rivoluzione Culturale cinese all’interno dei confini della Cambogia in una forma ancora più radicale. Nei quattro anni in cui il Paese assunse il nome di Kampuchea Democratica, Phnom Penh si isolò dal resto del mondo, eccezion fatta per i rapporti tenuti in vita con alcune nazioni comuniste, tra cui Cina, Corea del Nord, Albania e Jugoslavia.

I Khmer Rossi volevano trasformare la Cambogia, una monarchia costituzionale, in una sorta di repubblica socialista agraria basata su principi maoisti portati all’estremo. In ogni caso, i seguaci di Pol Pot svuotarono letteralmente le città per ripopolare le campagne, fulcro della nuova società cambogiana. Qui sorsero ingenti campi di lavoro (Killing Fields) dove centinaia di migliaia di persone persero la vita perché accusati di essere intellettuali o di appartenere a una minoranza etnica. Il genocidio cambogiano, dunque, nasce da un movente prettamente politico-ideologico, al quale si può collegare in seconda battuta l’aspetto etnico.

Come anticipato, fu decimato circa il 25% della popolazione cambogiana. Durante gli anni delle deportazioni ogni famiglia perse uno o più parenti. Gli storici sostengono che quasi 20mila persone transitarono nel centro di tortura di Tuol Sleng, il famigerato S-21, una delle 196 prigioni gestite dai Khmer Rossi. Di queste, se ne salvarono appena sette.

Accanto alle prigioni spiccavano i tristemente noti Killing Fields, luoghi all’interno dei quali venivano giustiziati gli oppositori. Per risparmiare munizioni preziose, i prigionieri venivano uccisi con asce o picchetti, per poi essere sepolti in fosse comuni.

Gli artefici delle mattanze erano molto spesso giovani o giovanissimi, strappati alle famiglie ed educati dai Khmer per essere “figli del partito”. Le loro giovani menti venivano plasmate per convincerli a praticare atti barbari sui poveri prigionieri. Il genocidio terminò nel 1979 in seguito alla sconfitta dei Khmer Rossi e all’invasione vietnamita della Cambogia.

È pressoché impossibile stabilire con certezza quante persone morirono durante il governo di Pol Pot. È inoltre estremamente complesso suddividere con precisione i decessi causati direttamente dalla violenza dei Khmer Rossi e quelli provocati da carestie, malattie e assenza di cure mediche. Sono tuttavia state fatte varie stime.

Il governo vietnamita, lo stesso che pose fine alla follia dei Khmer Rossi, parlò di oltre 3 milioni di morti. Lon Nol, il generale autore del golpe cambogiano negli anni ’70 e deposto dai seguaci di Pol Pot, parlò invece di 2,5 milioni di vittime. Vari storici, tra cui Rudolph Joseph Rummel, rinomato studioso di genocidi, ha stimato 2 milioni di morti.

Altri numeri: Amnesty scende a 1,5 milioni, poco più di quelli ipotizzati dal dipartimento di Stato degli Usa (1,2 milioni). Gli artefici del massacro vanno ancora più al ribasso: l’ex capo di Stato della Kampuchea Democratica Khieu Samphan parlò di 1 milione di morti, mentre Pol Pot di 800mila.

Esistono moltissime testimonianze capaci di rievocare le torture più atroci effettuate dai Khmer. Il più delle volte le persone venivano torturate e imprigionate soltanto a causa di un sospetto, non sempre fondato, di essere “nemici del popolo”, e quindi minacce per il governo comunista in carica. Talvolta, assieme al prigioniero venivano deportati anche i membri della sua famiglia (bambini compresi) onde evitare il rischio di una possibile vendetta.

Bou Meng, fortunato sopravvissuto alla prigione S-21, ha raccontato che le torture erano atroci al punto tale che spesso i prigionieri preferivano suicidarsi che soffrire in quel modo. Nel momento in cui le guardie si rendevano conto che un detenuto non era più utile alla causa (ovvero non aveva più informazioni da rivelare), a quel punto il malcapitato finiva in uno dei Killing Fields per essere ucciso sul posto. Alcune fonti sottolineano un altro aspetto: oltre alle torture, i Khmer Rossi erano soliti praticare esperimenti medici sui prigionieri, così da testare nuovi, improbabili metodi per curare malattie di ogni tipo.

Il governo cambogiano istituì nel 2001 il Tribunale speciale della Cambogia. L’intento delle autorità era chiaro: processare i superstiti della Kampuchea Democratica, inchiodare i colpevoli di fronte alle loro responsabilità e ridare, almeno in parte, giustizia alle vittime. Le prime udienze presero il via nel febbraio 2009. Nel 2014 arrivarono le prime condanne rilevanti, con Nuon Chea e Khieu Samphan condannati all’ergastolo per crimini contro l’umanità durante il genocidio. Altri nomi noti sarebbero stati condannati in seguito.

C’è un dato che fa impressione. Dal 2009 in poi la ong Centro cambogiano di documentazione ha ricostruito e mappato la bellezza di 23.745 fosse comuni. Al loro interno l’inevitabile, macabra scoperta: i resti di 1,3 milioni di possibili vittime del genocidio cambogiano. Pare che il 60% delle vittime totali sia stato direttamente ucciso dai Khmer; il restante morì di fame o per via dell’insorgere di malattie letali.