“Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio.
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Mobutu Sese Seko Kuku Ngbendu Wa Zabanga, letteralmente “Mobutu il guerriero che va di vittoria in vittoria senza che nessuno possa fermarlo”. Fu questo, per esteso, il nome dell’uomo che sarebbe passato alla storia come uno dei più predatori, dilapidatori e feroci tiranni dell’Africa contemporanea. Dopo la presa del potere nel novembre del 1965, il maresciallo Mobutu rivoluzionò completamente il suo Paese. Lo cambiò e plasmò dall’interno, abolì tutto ciò che era occidentale, modificò il nome della nazione da Repubblica del Congo a Zaire, abolì i nomi occidentali, diede l’illusione di una possibile risorgimento africano e poi fece sprofondare il Paese in una crisi economica senza pari. Fu per trent’anni il padre padrone di un Paese che si reggeva sulla corruzione e sulla paura, fu un uomo storico del ‘900, caratterizzato più da ombre che da luci, e del quale oggi non sopravvivono altro che il ricordo tramandato dalla storiografia e le ferite insanabili che la sua dittatura ha lasciato in Congo.
C’é un particolare che ci permette di comprendere chi fu Mobutu Sese Seko, all’anagrafe Joseph Desire Mobutu, prima ancora di addentrarci nel racconto della sua figura e del suo operato. Questo particolare va ricercato nelle letture del dittatore africano, nel libro che più amava: ”Il principe” di Machiavelli. Mobutu ne era un lettore compulsivo perchè nell’opera del filosofo fiorentino, il ”caudillo” africano, ricercava tutto ciò che riteneva fosse necessario per essere un buon governante. Considerava il libro un manuale di istruzioni per comandare e imporre il potere e spesso, in numerose sue scelte e decisioni, non fece altro che eseguire pedissequamente quanto Machiavelli suggeriva a Lorenzo de Medici duca di Urbino. Mobutu era un megalomane, avido di potere e da subito dimostrò di voler essere quel Principe mitizzato nell’opera cinquecentesca.
È meglio essere amato o temuto? Si vorrebbe essere entrambi ma, siccome è difficile, è meglio essere temuti. Così parla nella sua opera l’autore del Principe nella prima metà del 1500, e in questo modo Mobutu agì nel 1966 all’inizio del suo governo autoritario.
2 giugno 1966, Mobutu era al potere, grazie a un colpo di stato, soltanto da sei mesi, quando a Kinshasa centinaia di miglia di persone affollarono la piazza centrale. Fu la più grande adunata di massa della storia del Congo. Ad avere radunato tutte quelle persone fu lo stesso leader della nazione che voleva offrire ai suoi cittadini uno spettacolo tanto macabro quanto educativo. Quattro uomini, ex membri del governo, erano stati accusati di aver ordito contro di lui. In risposta, il nuovo leader della nazione africana decise di impiccarli davanti ai cittadini della capitale. I quattro accusati erano Alexandre Mahamba, ex ministro durante il governo Lumumba, Jerome Anany, ministro della Difesa sotto Adoula, Emmanuel Bamba, ministro delle finanze nello stesso governo e Evariste Kimba, l’uomo che per un breve periodo fu primo ministro su richiesta di Kasavubu. I quattro con ogni probabilità erano innocenti, la storia a posteriori li ha decretati vittime di una trappola, ma per Mobutu l’importante era impressionare, incutere timore, ottenere rispetto. Il processo fu una farsa, i quattro vennero assassinati davanti alla popolazione attonita. Tutto il mondo doveva sapere che Mobutu non aveva paura di niente e nessuno e non aveva nessuna pietà per i suoi nemici. Il mobutismo era iniziato e, oltre a i quattro ex ministri, a pagare il conto più alto per primi furono i suoi rivali storici: Tshombe, Kasavubu, Lumumba, Gbenye, Soumaliot, Mulele…uno ad uno morirono tutti.
Dopo le purghe esemplari Mobutu passò alle riforme politiche e, tra le prime che fece, vi fu quella di proibire i partiti politici, chiudere il Parlamento e ridurre il numero delle province portandole da 21 a 9 affidandone la gestione ai suoi fedelissimi: il Congo era divenuto a tutti gli effetti una dittatura militare centralizzata con a capo un solo uomo: Mobutu Sese Seko.
“Il popolo congolese e io stesso, siamo una sola persona”. È con queste parole che nel 1967 Mobutu presentò alla nazione la nuova Costituzione che conferiva basi estremamente solide al suo potere assolutista. Nell’aprile dello stesso anno, il leader congolese fondò, con alcuni dei suoi più stretti collaboratori, l’Mpr (Mouvement Populaire de la Revolution), il suo partito politico e a maggio pubblicò il Libretto verde dell’Mpr, il catechismo politico di ogni cittadino che, nella sua introduzione, non lasciava spazio a fraintendimenti su chi comandasse e chi obbedisse: “Che ti piaccia o no, ne fai parte (dell’Mpr ndr.), per definizione”, recitava un verso dell’opuscolo che fu distribuito a tutti i cittadini.
Il Movimento Popolare della Rivoluzione divenne il più alto ente dello stato, tanto che, come scrive Van Reybrouck nel suo best seller Congo: ”il confine tra stato e partito si annullò”. In cima all’Mpr c’era il Presidente, un gradino sotto il suo cerchio magico formato dai fedelissimi che costituivano il gabinetto di governo, il Bureau du President. Poi c’erano il Congresso del Mpr e l’Ufficio Politico, e più giù il consiglio legislativo, esecutivo e giuridico. Tutti i congolesi facevano parte del Movimento, per chi si opponeva non c’era spazio nel Paese. L’opposizione era formata unicamente dagli studenti congolesi che ribattezzarono l’Mpr, Mourir Pour Rien (Morire per nulla), e che, incendiati dalle proteste del maggio francese, nel ’68, inneggiando a Lumumba e rivendicando maggior partecipazione e redistribuzione più equa delle borse di studio, si scontrarono per diversi mesi con la polizia. Mobutu però reagì a modo suo: inviò l’esercito, fece sparare sui manifestanti e condannò a 20 anni di carcere i leader delle proteste. Mobutu non concedeva spazio a nessun tipo di dissenso e per chi si ribellava l’aspettavano le galere di stato o la forca pubblica.
Se da un lato Mobutu, una volta al governo, mise a tacere ogni espressione democratica, dall’altro lato però, nei suoi primi anni di governo, diede un enorme impulso all’economia del Congo come mai era avvenuto in passato e come in poche altre occasioni sarebbe avvenuto in futuro. Per la prima volta, dopo l’indipendenza, vennero svolti grandi lavori pubblici infrastrutturali, iniziò la costruzione della prima diga sul fiume Congo, la Grand Inga. I nuovi quartieri di Kinshasa ricevettero acqua potabile ed elettricità e l’ospedale della capitale giunse a vantare 1500 posti letto.
Sul modello di alcuni Paesi socialisti Mobutu introdusse la giornata del lavoro volontario e ogni sabato pomeriggio tutta la cittadinanza era chiamata a lavorare gratuitamente nei campi e a pulire le città per dare un impulso all’agricoltura e al decoro cittadino. Ma, a livello economico, l’operazione più importante che attuò il nuovo Presidente fu quella di nazionalizzare l’Union Minière. Mobutu, che sosteneva che il suo Paese fosse libero politicamente ma non economicamente, affrontò de visu Bruxelles e fece diventare lo stato il nuovo padrone delle attività estrattive. Una mossa audace che diede un impulso unico alla nazione africana dal momento che, a causa della guerra del Vietnam, il prezzo del rame era salito alle stelle e il Congo, all’epoca, ne ospitava i principali giacimenti a livello planetario. Il ricavato dalla vendita del metallo contribuì notevolmente, in quegli anni, allo sviluppo economico della nazione.
A livello politico Mobutu instaurò un regime monolitico, a livello economico, nei primi anni di governo, implementò l’economia del Paese e a livello sociale invece cercò di distruggere ogni forma di tribalismo in nome di un nazionalismo pancongolese. La politica di creare un sentimento nazionale si fondava sulla rottura con tutto ciò che rimandava al passato coloniale sostituendolo con il cosidetto “ricorso all’autenticità”, un misto di identitarismo e tradizione che doveva spingere tutti i congolesi a ritenersi figli di un unico stato, senza più alcun legame ombelicale con l’Europa, con l’Occidente ma anche con il loro gruppo tribale.
L’uomo che aiutò Mobutu in questa sua rivoluzione culturale fu Dominique Sakombi, “commissario di stato” per l’Informazione, ovvero Ministro dell’Informazione che, disponendo di oltre 1400 collaboratori e di un budget secondo solo a quello del Ministero della Difesa, iniziò un cambiamento identitario della società civile su vasta scala. Sakombi vietò agli uomini di vestirsi all’occidentale e proibì l’utilizzo della cravatta, alle donne furono vietate le minigonne, le statue raffiguranti gli ex colonizzatori furono abbattute, la musica occidentale venne messa al bando e inoltre vennero vietati i nomi occidentali tanto che il Congo venne ribattezzato dal presidente Mobutu; Zaire. Mobutu nel dare il nuovo nome al suo Paese si basò su una antica cartina portoghese dove il fiume Congo era indicato col nome di Zaire. Solo dopo aver introdotto il nuovo nome si rese conto di aver commesso un grossolano errore. Zaire infatti non era altro che lo spelling della parola nzadi, che in kongo significa fiume. Ma ormai, come in tante altre occasioni, il dado era stato tratto e quindi bisognava andare avanti, ad ogni costo, mistificando persino la realtà e la lingua nazionale.
Una delle più grandi preoccupazioni di Mobutu fu sempre quella di mostrare opulenza e potere: al suo popolo ma anche al mondo. E per farlo non badò mai a spese. Mobutu invitò l’equipaggio dell’Apollo 11 e il Congo fu l’unico Paese africano ad ospitare Armstrong, Collins e Auldrin, organizzò la finale di Miss Europa a Kinshasa, ma l’evento più spettacolare, e che passò alla storia, fu l’organizzazione, nella capitale dello Zaire, il 30 ottobre 1974, dell’incontro valido per il titolo mondiale dei pesi massimi di pugilato tra Muhammad Ali e George Foreman. La sfida venne consegnata alla storiografia come the rumble in the jungle, e fu ben di più di un semplice incontro di boxe, fu, come molti cronisti dell’epoca lo ribattezzarono, il combattimento del secolo.
Alì era la rappresentazione sportiva e idealizzata dell’orgoglio nero, ostentava con fierezza la sua blackness, era stato squalificato dalle competizioni perchè rifiutatosi di andare a combattere in Vietnam, ”nessun vietnamita mi ha mai chiamato negro”, dichiarò difronte ai media internazionale quando gli vennero chieste spiegazioni in merito alla sua renitenza alla chiamata alle armi. Alì era la rappresentazione granitica, fisica, scultorea dell’Africa che prende a cazzotti l’Occidente. ”Alì boma ye!” ”Ali, boma ye!”, ”Ali, uccidilo!”, urlava la folla di Kinshasa erratica ed estatica che accompaganava all’alba il suo idolo mentre si allenava per le vie della capitale. Ma uccidere chi? George Foreman, pugile straordinario, di sette anni più giovani di Alì, campione del mondo e olimpico a soli venticinque anni che per ben sei volte aveva messo a ko la leggenda della boxe Joe Frazier. Ma Foreman, per il fatto di non interessarsi di politica e di diritti civili, venne bollato di conservatorismo e considerato dal pubblico mondiale ” un americano comune, non un afroamericano”.
Il match, raccontato magistralmente nel documentario When we were kings, vide Alì trionfare dopo otto riprese mandando al tappeto il rivale. Fu una notte indimenticabile per gli abitanti di Kinshasa, una notte mistica in cui, nella vittoria del più grande pugile di tutti i tempi, venne di riflesso celebrato anche il mito di Mobutu. Una notte che si reggeva però su una ipocrisia, quella notte, costata 10 milioni di dollari, era stata finanziata grazie agli introiti derivati dalla guerra del Vietnam, proprio quella guerra che vedeva in Alì uno dei suoi più celebri oppositori a livello internazionale. Una notte lunga un secolo per l’Africa, per Alì e per Mobutu, perchè quando il suono della campana mise fine al match che incoronò Muhammad Alì campione del mondo, allo stesso tempo diede inizio alla disgregazione del sogno mobutista, ma questo, il padre dello Zaire, che non presenziò al match ma lo vide in televisione nella sua casa affacciata sul fiume Congo, ancora non lo sapeva o forse, nella solitudine della sua stanza, già lo sospettava ma cercava di nasconderlo a sé stesso e al suo popolo.

Il potere che Mobutu si era creato in dieci anni di governo si reggeva su una piramide clientelare. Al vertice c’era ovviamente il padre della patria e sotto di lui migliaia di burocrati, funzionari, attachés che offrivano fedeltà al leader in cambio di pantagruelici regali, faraonici aiuti e incommensurabili favori. Mobutu aveva bisogno di loro e loro avevano bisogno di Mobutu, spiega Van Reybrouck. Lo Zaire era formalmente una struttura feudale all’interno della quale migliaia di persone vivevano e si arricchivano a spese dello stato. Ma fino a quando la guerra del Vietnam, con la sua bulimica e incessante necessità di rame, aveva permesso che copiose entrate ingrassassero le casse dello stato, il gioco di prestigio di Mobutu che con una mano ungeva i suoi adulatori e con l’altra investiva nello stato, fu attuabile; quando la guerra cessò, il prezzo del rame finì a picco così come quello del petrolio, e le entrate di giorno in giorno si fecero sempre più esigue, ecco che allora il trucco del dittatore divenne manifesto e tutti i limiti economici e politici di Mobutu si resero palesi. Il presidente era a un bivio: o salvare il Paese, o salvare la sua immagine. Mobutu sacrificò la nazione in nome del culto di sé stesso.
A partire dal 1974 i prezzi degli alimentari divennero inaccessibili, nelle campagne ci fu un ritorno all’agricoltura di sussistenza perchè non c’erano infrastrutture capaci di mettere in comunicazione le zone rurali con le città, la politica di zairanizzazione, che prevedeva il rilevamento delle aziende in difficoltà (la stragrande maggioranza delle piccole e medie imprese della nazione) da parte dello stato che poi le donava ai sottoposti di Mobutu, creò fallimenti a catena, un aumento esponenziale della disoccupazione e dell’inflazione, e la scelta di investire ciecamente in opere infrastrutturali megalomani, come il lancio di razzi nello spazio, provocò il tracollo dello stato e la diffusione endemica della corruzione. Lo Zaire era malato e niente ormai poteva più salvarlo.
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CAUSALE: Reportage Congo
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“Mobutu is a bastard, but is our bastard”, “Mobutu è un bastardo, ma è il nostro bastardo“, è questa frase, emersa da alcuni rapporti confidenziali della Cia, che spiega meglio di mille analisi geopolitiche come fu possibile che Mobutu rimase al potere per altri vent’anni governando un Paese imploso dall’interno, saccheggiando ogni ricchezza e sperperando ogni singolo centesimo pubblico. Mobutu, nello scacchiere del mondo polarizzato, era per gli Stati Uniti e l’Occidente l’antemurale contro l’espansionismo di forze filo socialiste in Africa e per la Francia era un alleato preziosissimo con cui fare affari e aumentare la sfera di influenza dell’Eliseo nell’Africa equatoriale.
Per rendersi conto in che stato versava lo Zaire dopo due lustri di governo mobutista basta leggere alcuni dati sull’andamento dell’economia: tra il 1974 e il 1983 in Zaire i prezzi aumentarono di sei volte, nel 1975 il debito dello Zaire ammontava a 887 milioni di dollari e nel 1990 sarebbe salito a oltre 10miliardi di dollari. La moneta venne svalutata per ben sei volte, nel 1975 valeva 2 dollari, nel 1983 soltanto 0,083 dollari e il Pil crollò da 600 dollari nel 1980 a 200 dollari nel 1985. Istruzione e sanità pubblica nella metà degli anni ’80 erano praticamente inesistenti, l’esercito era una masnada in divisa dedita più al saccheggio che alla difesa, ed era prassi comune dei militari rubare e rivendere i pezzi degli armamenti e degli aerei. E non è un caso che tra il 1974 e il 1980 precipitarono due C-130, due caccia Macchi, tre elicotteri Alouette e quattro elicotteri Puma dell’esercito zairese. Il servizio postale non funzionava più, acqua ed elettricità scarseggiavano e c’era meno di una linea telefonica ogni mille abitanti.
Ma quindi come è possibile che il regime fosse ancora in piedi? Perchè da un lato, grazie all’intercessione di USA e Francia, Mobutu aderì al Fondo Monetario Internazionale e ricevette prestiti a cascata. Dall’altro lato, quello della politica interna, proprio grazie a quei prestiti, Mobutu continuò a perseguire nella cultura del saccheggio (si stima che soltanto nel biennio 77-79 Mobutu si appropriò di oltre 200milioni di fondi pubblici che dirottò in conti correnti esteri), non smise di ingraziarsi i funzionari e le più alte cariche dell’apparato statale e diede vita a un corpo di polizia politica spietato e feroce, la DSP, la Division Spéciale Présidentielle, che fece sprofondare lo Zaire in un regime di paranoia, psicosi e follia. Ma il re ormai era nudo, il comunismo stava franando insieme al muro di Berlino e nel nuovo mondo non c’era più spazio per l’autocrate della cleptocrazia.

Ci fu una notte, a Kinshasa, che passò alla storia come la notte delle cravatte. Fu la notte del 24 aprile 1990, il giorno in cui Mobutu, ormai con le spalle al muro e minacciato dai suoi sostenitori occidentali di non poter più contare sul loro supporto economico, capì che l’unico modo per rimanere ancora al potere era avviare un lento processo di democratizzazione dello Zaire. Quel giorno il leader della nazione annunciò la fine del partito unico, dichiarò che da quel momento ci sarebbe stato spazio per una stampa libera, per i sindacati e che entro un anno si sarebbero tenute le libere elezioni. Difronte a quest’uomo, che invecchiava a vista d’occhio e che ormai, dietro la spessa montatura dei suoi occhiali da vista e incorniciato sotto al suo tradizionale fez leopardato, sembrava l’ombra del tiranno feroce che fu, una moltitudine di persone esultò e in sfregio alle sue leggi anti-occidentali si riversò in strada indossando una cravatta: l’indumento più temuto e ostracizzato sino a quel momento dal regime mobutista.
Mobutu poche settimane dopo la grande dichiarazione fatta all’emittente di stato, cercò con un ultimo e disperato tentativo di far vedere chi ancora governava. Ma la repressione manu militari delle proteste studentesche scoppiate a Lubumbashi si rivelò, utilizzando un termine preso in prestito dal gergo pokeristico, un blow up: una mossa pessima, disperata e dall’esito catastrofico. Dopo l’ennesima strage di studenti Il Belgio interruppe ogni rapporto con Kinshasa, la Francia congelò i rapporti con il dittatore e a Washington non ne volevano più sapere. Nel 1994 il Fondo Monetario tolse lo Zaire dall’elenco dei membri elettori. Da quel momento lo Zaire precipitò in una crisi sociale e politica al limite dell’incomprensibile per gli storici e gli analisti di allora ma anche di oggi.
Il processo di democratizzazione nel Paese si basò sulla contrapposizione tra due partiti: l’MPR di Mobutu, e l’UDPS di Etienne Tshisekedi (padre dell’attuale presidente del Congo) e il partito d’opposizione, con anche l’appoggio della Chiesa, diede vita alla “Conferenza sovrana nazionale“, una conferenza che aveva come obiettivo quello di diventare la pietra miliare su cui costruire il futuro democratico della nazione. Durante la Conferenza che iniziò il 7 agosto del 1991 e terminò a dicembre del 1992, avvenne però di tutto: governi sfiduciati, esplosione di “chiese del risveglio“ e di sette religiose grazie ai soldi inviati dagli USA, ammutinamenti dei soldati che non ricevevano più le paghe da mesi, creazione di monete senza alcun valore, fallimento della Banca centrale, saccheggi nelle principali città; lo Zaire era sull’orlo dell’implosione e il peggio doveva ancora arrivare.
Ci fu un evento, all’inizio degli anni ’90, che in modo implicito stava preannunciando quello che sarebbe stato uno degli orrori più atroci di tutto il ‘900: il riaffiorare, dopo trent’anni, della questione etnica nell’Africa equatoriale. Consequenzialmente alla crisi politica, economica e sociale che si stava consumando in Zaire, ritornarono prepotenti e feroci gli odi etnici, raziali e xenofobi in tutta la nazione. In Katanga, la regione del sud ricca di giacimenti minerari, la popolazione locale minacciava, aggrediva e linciava la minoranza Luba proveniente dal Kasai. Ma il peggio si registrava nelle regioni orientali: in nord e sud Kivu.
Da quasi quarant’anni nelle terre bagnate dai Grandi Laghi e confinanti con Ruanda, Burundi e Uganda viveva una popolazione di tutsi che parlavano in ruandese, i banyarwanda. Sino a quel momento la convivenza tra le diverse componenti etniche era stata assolutamente pacifica ma, a causa della crisi dilagante, la popolazione iniziò a incolpare gli stranieri di voler prendere terra e potere e le tensioni etniche, nel ’93, nelle due province dell’est, costarono la vita a oltre 4’000 persone. Sebbene Mobutu avesse lavorato per anni nel cercare di abbattere il tribalismo e nel creare un unico sentimento nazionale, tutto ciò fallì dal momento che la povertà portò all’odio e, “la fame all’orrore”.
L’orrore però prima che consumarsi in Congo si consumò nel vicino Ruanda dove, nel 1994, avvenne il tragico genocidio ruandese. Nel piccolo Ruanda, le milizie hutu degli Interahmwe in tre mesi uccisero 800’000 persone tra hutu moderati e tutsi. La comunità internazionale, com’è noto, brillò per assenza e inefficienza e anzi la Francia di Mitterand, nel momento in cui il genocidio finì, le sorti del conflitto si capovolsero e i ribelli tutsi del Fronte Patriottico Ruandese incominciarono la lunga marcia che li avrebbe portati a prendere il potere a Kigali, diede vita all’Operation Turquoise, un’operazione mirata a far evacuare civili e anche i genocidari hutu. Far fuggire i responsabili dei massacri dal Ruanda per condurli al riparo: si, ma dove? Ovviamente in Zaire.
In quell’orrorifico 1994 Mobutu ritornò utile alla comunità internazionale che vide nel dittatore dello Zaire, che aveva all’epoca 64 anni ed era gravemente malato, la figura più stabile e fidata a cui rivolgersi per contenere l’esodo umanitario che stava sconvolgendo l’Africa Centrale. Lo Zaire arrivò ad accogliere nelle sue già sovrappopolate ed etnicamente instabili regioni orientali, oltre un milione e mezzo di rifugiati, il 20% dei quali erano ex militari o appartenenti a gruppi paramilitari macchiatisi dei peggiori crimini durante i giorni del genocidio. La preziosa collaborazione di Mobutu, che oltre ad accogliere i fuggiaschi hutu dal Ruanda aveva messo a disposizione della Francia anche i suoi aeroporti, venne lautamente ricompensata, ma quell’aiuto prestato agli europei, il padre dello Zaire l’avrebbe pagato caro, molto caro: in quei campi profughi infatti si celava il casus belli che avrebbe portato nel giro di tre anni il Presidente a fuggire per sempre dalla sua nazione.
Dopo che prese il potere a Kigali, Paul Kagame, che tutt’oggi è presidente del Ruanda, guardò con enorme preoccupazione i campi profughi nel vicino Zaire. Il suo timore era che nelle tendopoli sorte nel vicino Ziare centinaia di migliaia di tutsi si stessero armando, addestrando e preparando per attaccare di nuovo il Paese delle Mille Colline e reinsediare il regime hutu che era appena stato deposto. Kagame era disposto a tutto pur di neutralizzare quella che lui riteneva una pericolosissima minaccia. Un attacco da parte dell’esercito ruandese era impossibile perchè equivaleva, a tutti gli effetti, all’aggressione di uno stato sovrano da parte di una potenza straniera.
Allora, il comandante del Fronte Patriottico Ruandese e Presidente del Ruanda, cercò una copertura zairese al suo intervento. Tradotto in termini pragmatici armò e preparò i tutsi zairesi che da tempo vivevano frustrati e perseguitati nelle regioni del Kivu, ingaggiò l’ex compagno d’armi di Che Guevara Laurent Désiré Kabila e diede vita all’AFDL, Alleanza delle Forze Democratiche di Liberazione. Un gruppo rivoluzionario che aveva come obiettivo quello di neutralizzare i campi profughi e poi spingersi sino a Kinshasa, due mila chilometri più a ovest, per rovesciare il potere di Mobutu.
A fine ottobre del 1996, il vicegovernatore del Sud-Kivu dichiarò che a breve avrebbe proceduto alla purificazione etnica della regione dalla presenza dei tutsi. Queste parole provocarono proteste e manifestazioni da parte della popolazione tutsi locale e i tumulti che incendiarono le principali città della regione furono il segnale che diede avvio all’invasione. Il 28 ottobre la ribellione orchestrata da Kagame e condotta sul terreno da Kabila ebbe inizio. I rivoluzionari dell’AFDL presero in brevissimo tempo il controllo di Uvira, Bukavu, Goma, e poi iniziarono la loro lunga marcia, muovendosi come una tenaglia, verso la capitale. I principali centri economici e logistici in mano all’esercito lealista di Mobutu vennero travolti dall’avanzata degli uomini di Kabila e intanto, mentre avanzava, l’esercito ribelle lasciava dietro di sé una scia di morte e sangue. Si stima che durante la marcia dell’esercito invasore morirono dai 200 ai 300’000 profughi hutu in quello che fu a tutti gli effetti un “controgenocidio“ che però, anche in questo caso, il mondo preferì non guardare.
Usa, Regno Unito e Paesi Bassi, spinti dall’imbarazzo di non aver fatto nulla durante il genocidio del Ruanda incominciarono a dare ingente supporto al governo di Kigali, Mobutu poteva contare soltanto sull’aiuto sempre più flebile della Francia e su un manipolo di mercenari europei, per la stragrande maggioranza reclutati tra i serbi veterani della guerra in Bosnia. Ma ogni aiutò esterno per il Grande Leopardo, si rivelò superfluo. Il 16 maggio 1997 i rivoluzionari erano alle porte di Kinshasa, un giorno dopo entrarono nella capitale, presero il controllo della città sconfiggendo un manipolo di fedelissimi di Mobutu ormai allo sbando e Kabila si proclamò nuovo presidente.
Mobutu riuscì a fuggire in Marocco ma soltanto quattro mesi dopo morì per un cancro alla prostata che da anni stava minando la sua salute. Si concluse il 7 settembre 1997 la storia di Mobutu Sese Seko e terminava anche, dopo più di 30 anni, il regime mobutista. Si chiudeva una pagina nera della storia del Congo, ma presto, molto presto, un altro capitolo oscuro si sarebbe aperto, perchè alle porte del Cuore tenebre dell’Africa, stavano bussando feroci e oscuri venti di guerra che nell’arco di pochi mesi avrebbero trascinato la nazione in quella che è stata consegnata alla storia come la Guerra mondiale africana.