La storia fa gli uomini o gli uomini fanno la storia? Le opinioni sono discordanti, ma certo è che l’impronta lasciata da alcuni è indelebile e che viene da domandarsi come il corso degli eventi sarebbe evoluto se non fossero mai esistiti. Come sarebbe l’Europa se non fossero esistiti i Cesari? Come sarebbero le Americhe se non fosse vissuto Cristoforo Colombo? E come sarebbe stato il mondo se non fossero mai esistiti Gesù, Maometto, Napoleone e Alessandro Magno?
Thomas Carlyle, questi personaggi che hanno fatto la storia – e che essi stessi sono stati la storia –, li soleva chiamare i grandi uomini. E di questo elenco, più breve di quanto si possa immaginare, non fanno parte soltanto condottieri, esploratori, imperatori e profeti. Ne fanno parte, infatti, anche quei personaggi schivi, più portati per il dietro le quinte che per il palcoscenico, che sono comunemente noti come eminenze grigie. E tra le eminenze grigie che hanno fatto la storia, dando prova del loro essere dei grandi uomini carlyleniani, rientra sicuramente Henry Kissinger.
Henry Kissinger, al secolo Heinz Alfred Kissinger, nasce in quel di Fürth, nella Bavaria tedesca, il 27 maggio 1923. Appartenente ad una famiglia di ebrei tedeschi di umili origini – il padre era un insegnante, la madre una casalinga –, Kissinger cresce coltivando la passione per il calcio – vestì la casacca della giovanile dello SpVgg Fürth – e imparando precocemente l’arte della sopravvivenza a causa della vita sotto la dittatura nazista.
A partire dal 1933, e fino al 1938 – anno della fuga con la famiglia all’estero –, Kissinger avrebbe sperimentato personalmente e direttamente le violenze della Gioventù Hitleriana, il bullismo dei coetanei e le prepotenze delle forze dell’ordine. Un dramma condiviso anche dai genitori e dal proprio fratello minore, che nel 1938 avrebbe condotto la famiglia Kissinger a trovare riparo a New York.
A New York, tra un lavoro (umile) e l’altro, Kissinger sarebbe riuscito a ritagliarsi del tempo per proseguire gli studi interrotti in patria. Poco dopo l’iscrizione al prestigioso City College della Grande Mela, però, il futuro stratega avrebbe dovuto abbandonare nuovamente i libri a causa di forze maggiori: la Seconda guerra mondiale.
L’entrata nell’esercito, inizialmente avvenuta a malincuore, avrebbe cambiato la sua vita per sempre. Non soltanto l’esperienza gli avrebbe consentito di diventare un cittadino statunitense, ma le sue origini – Washington, in guerra contro Berlino, abbisognava urgentemente di germanofoni – e la sua intelligenza fuori dal comune – notata dal suo mentore nell’arma, Fritz Kraemer – lo avrebbero condotto in breve tempo dalla tediosa zona stampante alla movimentata sezione dell’intelligence militare.
Leale, impavido e geniale, Kissinger, poco più che ventenne, avrebbe dimostrato la propria unicità ai superiori diverse volte: raccogliendo intelligence durante l’offensiva delle Ardenne, amministrando da solo la città di Krefeld, guidando una squadra di caccia-Gestapo ad Hannover e gestendo l’avvio di quell’esperimento sociale che fu la denazificazione nel circondario della Bergstraße.
Finita la guerra con una medaglia di bronzo sul petto, Kissinger, a soli ventitré anni, nel 1946 fu nominato professore al Camp King della European Command Intelligence School. L’ingresso nelle stanze dei bottoni sarebbe arrivato di lì a breve – complice la nascita della guerra fredda e la conseguente ricerca disperata di menti acute da parte della Casa Bianca –, preceduto da una carriera universitaria folgorante ed eloquente: nel 1950 il baccellierato all’Harvard College, nel 1951 la specialistica ad Harvard, nel 1952 l’entrata nella Commissione per la Strategia psicologica in qualità di consulente e nel 1954 il dottorato (sempre ad Harvard) con una tesi sul concetto di legittimità nel sistema internazionale.
Nel 1955, appena trentenne, Kissinger era ampiamente avviato a diventare lo stratega essenziale della potenza indispensabile: gli Stati Uniti. Accettava ogni incarico che gli venisse proposto, capace com’era di svolgere simultaneamente una pluralità di ruoli, anche quando molto diversi tra loro, e di essere, in breve, uno stacanovista instancabile.
Se la seconda guerra mondiale aveva messo le forze armate a conoscenza di Kissinger, i turbolenti anni Cinquanta lo avrebbero portato al cospetto della Casa Bianca. Un luogo, la Casa Bianca, nel quale sarebbe entrato dopo aver ottenuto la direzione del Seminario Internazionale di Havard, svolto consulenze per il Dipartimento di Stato, il Consiglio di Sicurezza Nazionale e la Corporazione Rand, lavorato per il Council on Foreign Relations e il Rockefeller Brothers Fund, scritto due libri (Nuclear Weapons and Foreign Policy e A World Restored) e co-fondato il Center for International Affairs – e, tutto questo, in meno di dieci anni, cioè dal 1951 al 1957.
Il destino avrebbe fatto incontrare Kissinger e Richard Nixon nel 1967. I due, che si incontrarono ad una festa organizzata dalla giornalista Clare Boothe Luce, a partire da quel momento non si sarebbero più staccati l’uno dall’altro. Indivisibili, come due gemelli siamesi, i due, di lì a breve, avrebbero trasformato quel legame intimo nell'”amicizia che cambiò il mondo”. Perché nel 1969, Nixon, appena insediatosi allo Studio Ovale della Casa Bianca, avrebbe scelto Kissinger quale Consigliere per la sicurezza nazionale.
La guerra fredda non sarebbe stata la stessa se Kissinger non fosse esistito. Eminenza grigia della Casa Bianca dal 1969 al 1977 – ottennato durante il quale fu segretario di Stato per Richard Nixon e Gerald Ford –, Kissinger avrebbe scritto la politica estera degli Stati Uniti dell’epoca basandosi su una weltanschauung riassumibile come segue: realismo sempre, distensione quando possibile, arrendevolezza fine a stessa mai.
Quella visione delle relazioni internazionali, come è noto, avrebbe condotto Kissinger tanto lontano quanto in alto – premio Nobel per la pace nel 1973 –, gettando le fondamenta della futura vittoria di Washington nella guerra egemonica del Novecento. Nel (lungo) elenco delle iniziative di Kissinger, che avrebbero aiutato la presidenza Reagan a dare il colpo di grazia al morente Secondo mondo, si ricordano per rilevanza ed incisività nel lungo periodo:
- La visita di Nixon nella Repubblica Popolare Cinese, propedeutica alla catalizzazione della rottura sino-sovietica. Nell’alveo della normalizzazione sino-americana, tra i vari eventi diretti e sceneggiati da Kissinger, ebbe luogo l’abbandono della politica delle due Cine.
- La ritirata strategica dal Vietnam, utile a ridurre la dispersione dell’attenzione e a possibilitare un riposizionamento delle risorse in teatri vincibili.
- La de-escalazione con l’Unione Sovietica a mezzo della politica della distensione (détente), dal cui grembo avrebbero visto luce i primi trattati sul controllo degli armamenti strategici.
- Il patto di non aggressione tra Israele ed Egitto. Kissinger curò personalmente il fascicolo arabo-israeliano, sentendo ogni interessato – dai sauditi ai siriani, passando per i sovietici – e gettando le basi sia per una normalizzazione tra Israele e parte dell’arabosfera sia per un ritorno degli Stati Uniti in Medio Oriente.
- Il colpo di Stato in Cile. Consumato nel 1973 da Augusto Pinochet, il golpe fu l’esito di un triennio di guerra ibrida a base di sabotaggi, diffusione di bufale divisive, omicidi mirati, operazioni sotto falsa bandiera, guerra economica e terrorismo. L’obiettivo era quello di prevenire un effetto domino nell’America meridionale.
- L’Operazione Condor, concepita allo scopo di minimizzare l’influenza comunista nelle Americhe latine – Caraibi, Mesoamerica e cono sud – attraverso una rigida securizzazione dell’intera regione, impermeabilizzata da una costellazione di dittature militari quando a-ideologiche e quando filofasciste.
L’uscita di scena dalla Casa Bianca non ha significato un’uscita di scena dalla politica a stelle e strisce. Al contrario, la libertà acquisita nel dopo-Ford ha consentito a Kissinger di lavorare, più che per un partito, per il partito: gli Stati Uniti. La dedizione dura e pura alla salvaguardia degli interessi nazionali, anziché quelli di partito, lo ha portato a prestare servizio in una pluralità di luoghi, tra i quali Commissione Trilaterale, Università della Columbia, Centro per gli Studi Internazionali e Strategici, Edmun Walsh School of Foreign Service, Camera di commercio Stati Uniti-Azerbaigian ed Eisenhower Fellowships.
Dal 1982, inoltre, l’ex stratega di Nixon e Ford è a capo di un’azienda di consulenza geopolitica, la Kissinger Associates, i cui dipendenti vengono selezionati nelle migliori università americane e offrono a chi li contratta l’opportunità unica di ricevere delle analisi di scenario e delle relazioni internazionali dalla qualità più unica che rara.
Stati Uniti a parte, Kissinger ha anche ricoperto degli incarichi di rilievo all’estero – nel 2000 fu assunto come consigliere politico dall’allora presidente indonesiano Abdurrahman Wahid – ed è noto per il rapporto di amicizia sviluppato negli anni con Vladimir Putin – diciassette incontri dal 2000 ad oggi. Rapporto che, lungi dall’essere fine a se stesso, è stato coltivato da Kissinger (anche) allo scopo di evitare una nuova guerra fredda e che si è rivelato determinante in due occasioni: nel 2010, quando ha favorito la realizzazione del New Start, e nel 2018, quando ha agevolato il concretarsi del vertice di Helsinki.
Contrariamente ad Alexis de Tocqueville, che riteneva inevitabile il bellum perpetuum tra Mosca e Washington, Kissinger non ha mai nascosto di confidare nell’instaurazione di una coesistenza pacifica, incardinata sul pragmatismo e guidata dall’obiettivo di rendere il pianeta un luogo più stabile e sicuro, e ha trascorso il dopo-guerra fredda a fare un insolito lobbismo a favore di un pivot to Russia.
Quel lobbismo ha assunto la forma di suggerimenti alle amministrazioni Obama e Trump, incontri ciclici con Putin e, non meno importante, assunzione di posizioni critiche e formulazione di giudizi severi su alcune azioni di politica estera degli inquilini della Casa Bianca. Azioni come l’intervento nelle guerre iugoslave in chiave antiserba – Kissinger ha criticato dapprima il benestare alla sopravvivenza della Bosnia ed Erzegovina e dipoi il supporto al Kosovo – e la gestione del fascicolo Euromaidan – Kissinger è contrario all’entrata dell’Ucraina nell’Alleanza Atlantica ed è a favore del riconoscimento dell’annessione della Crimea da parte della Federazione russa.
Nel 2023, anno dello spegnimento della candelina numero cento, l’instancabile Kissinger è rientrato in scena. E non in punta di piedi. È rientrato in scena perché, dopo aver gridato nel deserto (per anni) che i tentativi degli Stati Uniti di rallentare la fine del sistema internazionale occidente-centrico alimenteranno le spinte in senso contrario provenienti dal resto del mondo, ha ritenuto fosse necessario intervenire.
Kissinger, dando prova di essere la voce della coscienza dei realisti americani – manto erboso schiacciato dagli elefanti neoconservatori e neowilsoniani –, ha trascorso il 2023 all’insegna dell’attivismo su carta, concedendo interviste e firmando analisi ed editoriali sulla guerra in Ucraina, e dei viaggi.
Il fatto di non essere stato ascoltato da Joe Biden, unico presidente nel dopo-Ford a non aver ricevuto consigli e a non aver tenuto visite private con Kissinger, non ha fermato l’irrefrenabile voglia dello stratega in pensione di rimettersi in gioco. In luglio, in una mossa che ha colto di sorpresa ogni osservatore e che (apparentemente) non è stata concertata con la Casa Bianca, Kissinger ha deciso di prendere l’aereo e di recarsi nella capitale in cui scrisse la storia del Novecento: Pechino.
Kissinger, l’americano più rispettato dai cinesi, è sbarcato a Pechino con l’obiettivo di riuscire laddove i sergenti di Biden, Antony Blinken, Janet Yellen e John Kerry, non avevano avuto successo: convincere Xi a ripristinare i canali bilaterali per le comunicazioni di alto livello. Canali interrotti dopo l’incidente del pallone-spia di inizio anno.
Il mondo che Kissinger ha costruito sta cadendo a pezzi: il Momento unipolare è stato più fugace delle aspettative, la Russia cerca di riscrivere il finale della Guerra fredda e la Cina vuole che le venga riconosciuto il diritto di essere la potenza-guida dell’Asia. Continua a credere nel modello che lo ha stregato da giovane, il pragmatico sistema del concerto europeo del post-Napoleone, e non ha nascosto le ragioni che lo hanno spinto a tornare in pista: la paura che gli sforzi degli Stati Uniti di fermare la transizione multipolare, trainata dalla Cina, conducano a una guerra mondiale prima della metà del secolo.