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Guerra mondiale d’Africa, jihad e coltan: la storia recente del Congo

“Vogliamo raccontare i drammi senza fine del Congo, una terra tormentata da gruppi armati anche di matrice islamista, depauperata dallo sfruttamento delle risorse minerarie, travolta da epidemie e da sfide che riguardano tutti noi. Vogliamo farlo attraverso lo sguardo di chi da anni si occupa di questo Paese: il fotografo Marco Gualazzini e il giornalista Daniele Bellocchio.
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“La storia è cosparsa di guerre che tutti sapevano che non sarebbero mai accadute”. Questa massima di Enoch Powell, controverso parlamentare e ministro britannico, è con ogni probabilità l’aforisma che racconta e riassume al meglio la contemporaneità del Congo. Uno stato che, come abbiamo visto sino ad ora, al momento stesso della proclamazione della sua indipendenza ,il 30 giugno del 1960, è stato travolto da ondate di violenza, poi è stato investito da un lustro di guerre e a questo ha fatto seguito il trentennale regime di Mobutu terminato con un ulteriore conflitto, la Prima guerra del Congo, che ha visto il gruppo ribelle Alliance des Forces Démocratiques pour la Liberation, capeggiato da Laurent Désiré Kabila, abbattere il governo mobutista, porre fine alla tirannide e insediare un nuovo esecutivo. Fine delle guerre quindi per il Paese africano? Assolutamente no. Soltanto 15 mesi dopo l’insediamento del nuovo Presidente la nazione della regione dei Grandi Laghi è infatti sprofondata in una nuova guerra molto più sanguinosa e violenta delle precedenti: la guerra mondiale africana.

Dopo una guerra costata 5mila morti ai ribelli filo ruandesi, tra i 10mila e i 15mila morti alle forze regolari zairesi, un numero imprecisato di morti tra la popolazione civile con le stime che oscillano tra le 250.000 e le 800.000 vittime e oltre 200.000 dispersi: che cosa è cambiato in Congo? Se si guarda dal punto di vista della popolazione locale: niente, perché all’indomani della fuga di Mobutu un nuovo presidente, un nuovo leopardo, ha preso il suo posto, un nuovo governo si è insediato, sono cambiati i nomi e le bandiere ma la corruzione, la repressione dei diritti civili, la miseria e la violenza sono rimaste immutate.

Laurent Désiré Kabila, questo il nome del nuovo rais congolese, nacque nel 1939 a Jadotville, studiò in Francia si laureò all’università di Dar Es Salaam e supportò Lumumba durante i primi anni dell’indipendenza del Congo. Quando però il leader dell’MNC venne arrestato, Kabila si diede alla macchia e nel 1964, alla testa del CNL, cercò di soverchiare il governo di Mobutu godendo per un breve periodo anche dell’appoggio di Che Guevara. La ribellione venne repressa e Kabila rimase nascosto nelle sue roccaforti attendendo il 1996 per passare di nuovo all’azione e, con il supporto del vicino Ruanda, abbattere il regime mobutista.

Il 29 maggio 1997 Kabila entrò trionfalmente a Kinshasa e prestò giuramento come Presidente della nazione che da quel momento smise di chiamarsi Zaire ma venne ribattezzata Repubblica Democratica del Congo e, come fece il suo predecessore, nei primi mesi di governo cercò di ingraziarsi la popolazione e le forze armate. I resoconti e le cronache dei primi mesi della presidenza di Kabila parlano infatti di un cambiamento radicale per il Paese. Il sistema elettrico e fognario delle principali città venne ripristinato, i dipendenti statali e i militari ricevevano puntualmente gli stipendi, l’inflazione si ridusse drasticamente e addirittura venne coniata una nuova moneta.

Ma l’entusiasmo, le celebrazioni e i festeggiamenti durarono poco perché in breve tempo il nuovo leader calò la maschera e mostrò il suo vero volto: la Costituzione, il Parlamento e la commissione elettorale degli anni della transizione sparirono, gli oppositori dell’Udps finirono in carcere, il sistema multipartitico venne interrotto, Kabila introdusse il culto della sua personalità, represse la libertà di stampa, e il Presidente introudusse una nuova Costituzione che accordava tutti i poteri al capo di stato: il Congo era di nuovo al punto di partenza.

Laurent Kabila

Il nuovo capo di stato, dopo una breve fase iniziale, incominciò ad essere inviso alla popolazione congolese, non solo per i suoi modi autoritari ma anche perché tra le più alte cariche dello stato c’erano i suoi fedelissimi dell’Afdl e molti di questi erano tutsi ruandesi compreso James Kabarebe che venne nominato da Kabila capo di stato maggiore. Iniziò a diffondersi in Congo l’idea che i ruandesi erano divenuti i veri padroni del Paese e che il piccolo stato africano voleva creare una Grande République des Volcans ambendo così ad accaparrarsi i ricchi giacimenti dell’ex colonia belga. Insieme alle teorie, più o meno dietrologiche, iniziò a crescere anche l’odio etnico e sociale dei congolesi nei confronti dei tutsi e dei ruandesi, e Kabila, in breve tempo, si accorse che doveva tagliare i ponti con il vicino Ruanda se non voleva essere spodestato da una popolazione sempre più esasperata dalla presenza di funzionari civili e militari stranieri oltreché da un governo dispotico e molto simile a quello mobutista.

Il 26 luglio 1998 Kabila, attraverso un comunicato alla radio, fece sapere che tutti i soldati ruandesi e di altri paesi stranieri dovevano lasciare il suo congolese. Fu una forma elegante per dare il ben servito a centinaia di soldati ruandesi e ugandesi che gli avevano consentito di prendere il potere. Kaberebe ritornò a Kigali furibondo e dopo un’azione del genere da parte di Kabila era inevitabile che ci sarebbe stata una pesante reazione da parte di Museveni e Kagame. E infatti, soltanto sette giorni dopo, Kabarebe invase il Congo e la seconda guerra congolese, o prima guerra mondiale africana, ebbe inizio. Il conflitto questa volta non durò sette mesi come fu per la prima guerra del Congo ma cinque anni, e non interessò soltanto la regione dei Grandi Laghi ma vide oltre nove nazioni parteciparvi. Nel solo Congo si calcoleranno tra i 3 e i 5 milioni di morti a causa della guerra e quello che fu uno dei conflitti più sanguinari a livello globale dalla fine della Seconda Guerra Mondiale fu caratterizzato da tre fattori principali: la domanda mondiale di materie prime minerali, l’offerta globale di armi e l’impotenza delle Nazioni Unite.

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CAUSALE: Reportage Congo
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Il 2 agosto 1998 i combattimenti ebbero inizio. Il Ruanda, supportato da Burundi e Uganda, utilizzò la stessa tattica del 1996, creò un movimento ombra analogo all’Afdl, il Rassemblement Congolais pour la Démocratie (RCD), e iniziò l’invasione del Congo. Il movimento ribelle era capeggiato da Ernest Wamba dia Wamba, un ex professore di storia divenuto improvvisamente un leader guerrigliero, ma il vero regista dell’operazione fu James Kaberebe. L’ex luogotenente di Kabila era convinto di chiudere la faccenda in brevissimo tempo e dopo aver occupato Goma e Bukavu ordì un piano estremamente audace. Dall’aeroporto di Goma inviò aerei pieni di soldati del RCD a Kitona, sull’Oceano Atlantico, città distante soltanto 400chilometri da Kinshasa. Creata questa testa di ponte era ormai convinto di poter prendere la capitale nel giro di settimane. Il piano sembrava funzionare, gli uomini di Kaberebe presero controllo della città di Matadi e della diga di Inga e per giorni e notti impedirono l’approvvigionamento di viveri e di elettricità alla capitale Kinshasa.

La situazione sembrava critica per gli uomini di Kabila che erano inferiori sia numericamente come come preparazione alle truppe di Kaberebe, e la caduta di Kinshasa appariva imminente. Avvenne però un colpo di scena, la guerra uscì dai confini della Repubblica Democratica del Congo e nuovi attori intervennero cambiando le sorti del conflitto. Lo Zimbabwe di Robert Mugabe e l’Angola di José Eduardo dos Santos accorsero in aiuto di Kabila e non lo fecero solo perché si sentivano affraternati in nome delle idee socialiste con cui tutti e tre avevano flirtato, ma per motivi ben più pragmatici. L’Angola voleva dare una lezione al Ruanda che strizzava l’occhio all’Unita di Jonas Savimbi e lo Zimbabwe invece aveva enormi interessi estrattivi in Katanga.

Oltre a queste due potenze intervennero anche la Namibia, il Sudan che aveva un conto aperto con l’Uganda che sosteneva i ribelli nel Sud del Sudan, la Libia che voleva uscire dall’isolamento internazionale e il Ciad mosso da un’alleanza con i due paesi precedenti. La guerra nel cuore dell’Africa divenne quindi la guerra dell’Africa con 85’000 uomini nella coalizione kabilista e 55’000 invece a supporto dei ribelli. E questo enorme dispiego di forze creò uno stallo militare che vide i regolari conquistare in breve tempo l’ovest del Paese mentre gli insorti dell’RCD restavano arroccati nell’est e, nel novembre del ’98, un nuovo gruppo ribelle, questa volta finanziato e strutturato dall’Uganda, irruppe sulla scena a fianco dell’RCD: l’MLC, le Mouvement Pour la Liberation du Congo, capeggiato da Jean Pierre Bemba.

La comunità internazionale per il primo anno di conflitto si dimostrò molto distratta poi, a inizio ’99, le pressioni della Francia (acerrimo nemico del Ruanda) e degli Usa (il miglior amico del Ruanda), portarono le parti in causa a firmare gli accordi di Lusaka, a luglio, che prevedevano il ritiro delle truppe da parte degli eserciti stranieri, il dispiegamento di 500 osservatori delle Nazioni Unite oltre all’avvio di un dialogo nazionale in Congo.

Guerriglieri nella zona di Goma, Nord Kivu

Dopo l’accordo di Lusaka la guerra non cessò, semplicemente cambiarono i fattori dell’equazione e la guerra da politica divenne meramente economica. La presenza di armi a buon mercato provenienti dagli ex regimi comunisti, il numero ciclopico di bambini soldato, le risorse del sottosuolo in abbondanza, trasformarono il conflitto in un’attività estremamente lucrosa. L’RCD e l’MLC persero ogni interesse verso Kinshasa e si arroccarono nelle province orientali del Paese e gli amici di ieri divennero i nemici di oggi. Uno dei fatti più esecrabili di questa seconda fase della guerra fu proprio lo scontro tra le due fazioni ribelli per la città di Kisangani, uno dei principali centri diamantiferi del Paese.

Per tre volte, nell’agosto dell ’99, nel maggio del 2000 e nel giugno del 2000, le milizie filo ruandesi e quelle filo ugandesi combatterono senza esclusione di colpi e senza lesinare su violenze e barbarie ai danni della popolazione civile. “L’Uganda e il Ruanda combattevano per un Congo a pezzi ma ricco, come uno sciacallo e una iena che si accaniscono sulla stessa carcassa”. Queste parole di Van Reybrouck, meglio di ogni altre, descrivono la situazione di quei giorni. Ma la frammentazione dei gruppi ribelli non si limitava solo alla guerra tra Kampala e Kigali ma le scissioni esplodevano anche nei singoli gruppi rivoluzionari: l’Rcd si scisse in Rcd-Goma e in Rcd-K, e poi quest’ultimo si scorporò in un ulteriore sottogruppo, l’Rcd-K/Ml: nessuno voleva rinunciare al forziere congolese.

Nel 2000 una ghiaia nera, pesantissima divenne il nuovo oro globale: si trattava del coltan, una materia prima presente in enorme quantità in Congo e necessaria per tutte le apparecchiature che oggi utilizziamo. Dai computer ai telefonini, dai peacemaker ai videogiochi. Nel primo anno del nuovo millennio esplose una vera e propria febbre del coltan. Nokia ed Ericson volevano lanciare sul mercato una nuova generazione di cellulari e la Sony era già pronta per Natale con il lancio del nuovo modello di PlayStation: il prezzo del coltan in meno di dodici mesi si decuplicò e un ennesimo paradosso stava per travolgere il Congo: ciò che per qualsiasi altro Paese al mondo sarebbe stata una benedizione invece nel Paese africano si tradusse in una maledizione.

Nel far west congolese i gruppi armati interessati ad accaparrarsi una porzione delle miniere di coltan si moltiplicarono, e i profitti della guerra furono tre volte superiori ai costi. Bambini, contadini, professori tutti erano infettati dal miraggio del coltan, abbandonavano scuole, campi e posti di lavoro e si precipitavano a lavorare nelle miniere o si arruolavano in una delle molteplici formazioni ribelli che infestava l’est della nazione. La guerra contaminava il Kivu, la orchestravano Ruanda e Uganda, la combattevano e la subivano i congolesi e se ne approfittava il mondo intero. Il male sembrava irreversibile e il Congo ormai era in uno stadio di conflitto cronico che nessuno sembrava più essere in grado di arrestare.

Miniera di Coltan nei pressi di Goma, Nord Kivu

16 gennaio 2001, mattina, Kabibla stava tenendo una riunione quando un bambino soldato facente parte della sua scorta, un kadogo, come sono chiamati in Congo, fece irruzione nel suo ufficio, gli si avvicinò, ma anziché sussurrargli qualcosa all’orecchio come sembrava, estrasse una pistola automatica e esplose tre colpi contro il Presidente uccidendolo. Il perchè dell’omicidio ancor oggi non si sa. C’è chi sostiene che sia stato commesso per vendicare un altro bambino soldato ucciso per volontà dello stesso Kabila, c’è chi dice chi sia stata una questione di diamanti con l’Angola, certo è che l’omicidio del ”Mzee” Kabila diede una svolta significativa alla seconda guerra del Congo.

In fretta e furia venne nominato come suo successore il figlio; Jospeh Kabila che, a New York, a febbraio di quell’anno, incontrò l’eterno nemico Paul Kagame. I due parlarono di pace e, anche grazie ad alcuni rapporti delle Nazioni Unite che mostravano in maniera incontestabile il saccheggio perpetrato da Ruanda e Uganda, incominciarono una serie di serrati colloqui che portano il 17 dicembre del 2002 alla firma degli accordi di pace di Pretoria che misero teoricamente fine alla seconda guerra del Congo.

L’accordo di pace firmato a Pretoria, in apparenza sembrava aver tutte le carte in regola per porre fine, una volta per tutte, alla crisi armata che attraversava il Congo. L’accordo prevedeva infatti un periodo di transizione di due anni in cui il potere doveva essere amministrato secondo la formula 1+4: ovvero, un Presidente, Joseph Kabila e quattro vicepresidenti che nello specifico erano due leader ribelli, un uomo dell’entourage di Kabila e uno dell’opposizione civile. Inoltre il trattato siglato in Sudafrica chiedeva che venissero smantellati tutti i gruppi ribelli e che i miliziani entrassero a far parte dell’esercito regolare e che nel biennio di transizione si preparassero le elezioni democratiche per il 2003.

Inoltre il contingente delle Nazioni Unite veniva incrementato fino a raggiungere gli 8’700 effettivi divenendo così la missione dei caschi blu più consistente al mondo per numero di soldati schierati, ma, con un budget di un miliardo di dollari l’anno, anche la più costosa. Le premesse perché il Congo uscisse dallo stato di crisi e violenza in cui versava da decenni c’erano tutte ma la cleptocrazia che aveva infestato il Paese durante il regime di Mobutu si ripresentava anche stavolta e raggiungeva pratiche che neanche durante la trentennale dittatura si erano registrate. Rubavano i leader politici, rubavano i vertici dell’esercito che tra l’altro non venne integrato con i miliziani ribelli come previsto dagli accordi di pace, il clientelarismo dilagava, la corruzione era imperante e i vignettisti satirici, in sfregio a leader militari e politici, iniziarono a lanciare uno slogan: 1+4=0. Perché i conti non tornavano mai e il beneficio degli accordi di Pretoria per la popolazione era nullo, appunto, uguale a zero.

Vista la situazione era inevitabile che la guerra scoppiasse nuovamente. Le province orientali si infiammarono di nuovo. Nel 2003 l’Ituri divenne il proscenio dello scontro etnico tra i gruppi hema e lendu, un secolare conflitto tra agricoltori e pastori fomentato questa volta dall’Uganda che cercava attraverso la strategia del divide et impera di mettere mano ai giacimenti di oro della regione. Nel Kivu riaffiorava l’odio tra hutu e tutsi, orchestrato dal Ruanda che, attraverso Laurent Nkunda, un guerrigliero tutsi che aveva fatto tutto il corsus honorum nei gruppi ribelli creati da Kigali, diede vita al CNDP: l’ennesimo movimento ombra che iniziò una ferocia guerriglia.

Nel 2004 i miliziani filo ruandesi saccheggiarono Bukavu, poi si diedero alla macchia ma ritornarono nel 2006 e per tre anni misere a ferro e fuoco le province del Kivu commettendo esecrabili crimini contro la popolazione civile e utilizzando sistematicamente lo stupro come arma di guerra. Mentre a est avveniva tutto questo, intanto, nel 2006, a Kinshasa venivano organizzate le prime libere elezioni della storia del Congo dopo la sua indipendenza. L’esito, letto a posteriori, appariva scontato: Kabila stravinse, forte anche della sua Garde Republicaine, una milizia privata che contava 15mila uomini e, mentre il Presidente esultava, intanto il Paese sprofondava in una crisi economica senza pari: nell’indice dello sviluppo umano, nel 2006, il Congo era soltanto dieci posti sopra l’ultima posizione, la mortalità infantile era tra le più alte al mondo, 161 bambini su 1000 non raggiungevano i cinque anni di età, l’aspettativa di vita alla nascita era di 46 anni, il 30% della popolazione era analfabeta il 50% della popolazione non aveva accesso all’acqua potabile e il Congo affondava sempre più in una voragine di tangenti, sperperi e ruberie più o meno legalizzate.

A partire dalla fine degli anni ’90 la Cina penetrò in modo sempre più prepotente in Africa e non solo per vendere i suoi prodotti ma soprattutto per accaparrarsi materie prime. I primi Paesi con cui Pechino fece affari furono quelli ricchi di petrolio: Nigeria, Angola e Sudan. Poi l’interesse del Dragone si concentrò verso le materie prime e quindi iniziò a fare accordi con Zambia e Gabon per via del ferro e infine, nonostante la situazione di instabilità e il periclitante contesto bellico, la Cina arrivò anche in Congo: il forziere congolese era un piatto troppo ricco per poterselo lasciar scappare. Il metodo di penetrazione della Repubblica Popolare fu tanto nuovo quanto spregiudicato.

I vertici cinesi infatti si accaparrarono l’Africa in nome di una cooperazione fraterna tra sud del mondo, non indossando i panni paternalistici del nord che soccorreva il bisognoso e povero sud. Nei fatti però la sostanza non cambiava . Per capire l’intervento economico e commerciale di Pechino è bene leggere l’analisi fatta da Van Reybrouk che spiega in modo cristallino l’accordo economico sino congolese. “Nel settembre del 2007 Pierre Lumbi, ministro delle Infrastrutture annunciò che il Congo aveva concluso un mega-accordo con la Cina. Sarebbe stata creata una joint venture di diritto congolese con tre aziende di stato cinesi (una banca, una società di costruzioni ferroviarie e una di costruzioni generali). La partecipazione del Congo sarebbe stata del 32%, quella della Cina del 68%. La joint venture avrebbe potuto estrarre dieci milioni di tonnellate di rame e seicentomila di cobalto nel solo Katanga. In cambio la nuova società avrebbe investito tre miliardi di dollari nel ripristino delle infrastrutture minerarie e sei miliardi nella costruzione di strade asfaltate, ferrovie, case, ospedali, centrali idroelettriche, aeroporti e università. E siccome la joint venture non poteva contare su dei proventi la Cina avrebbe anticipato i soldi che sarebbero stati rimborsati a tempo debito dalla joint venture”.

Un accordo enorme, un baratto faraonico; risorse in cambio di infrastrutture. Ovviamente l’Occidente quando apprese la notizia, dopo un iniziale sbigottimento, urlò allo scandalo, parlò di neocolonialismo cinese, di sfruttamento da parte di Pechino, di rischio di indebitamento e collasso del Congo; tutto vero: ma in concreto cosa avvenne? Dopo aver raccontato la storia del Congo, se la domanda risulta retorica, la risposta appare ormai tristemente scontata: una nuova guerra. Nel 2012 il Ruanda, appoggiato dagli Usa e celebrato dall’Occidente, creò un nuovo gruppo ribelle, gli M-23, eredi del CNDP di Nkunda, che scatenarono un nuovo conflitto nelle regioni orientali.

Il presidente congolese Joseph Kabila e il suo omologo cinese Xi Jinping

L’ultima guerra su ampia scala che travolse la Repubblica Democratica del Congo fu quella del 2012, durata all’incirca 9 mesi e che terminò con la sconfitta dei ribelli tutsi filoruandesi. Questo però non significa che il Congo dopo quell’escalation abbia conosciuto la pace. Nonostante la sconfitta di Kabila alle elezioni del dicembre 2018 e la formazione di un nuovo governo con a capo Felix Tshisekedi, figlio dello storico oppositore di Mobutu Etienne Tshisekedi, la situazione nel Paese non sembra essere cambiata. Le regioni orientali sono il regno di oltre cento gruppi armati che uccidono, stuprano e destabilizzano la regione per mettere mani sui numerosi giacimenti minerari presenti nel territorio.

Negli ultimi anni, sul proscenio congolese, ha fatto per la prima volta la comparsa una formazione islamista, gli ADF, un gruppo nato in Uganda, radicalizzatosi nel tempo e che dal 2013 ad oggi ha intensificato gli attacchi e le azioni nel Nord Kivu e nel 2017 ha giurato fedeltà a Daesh ribattezzandosi ISCAP; Provincia dello Stato Islamico in Africa Centrale. Gli ADF si sono inseriti in un contesto estremamente precario e fragile. In Kivu, negli anni, si sono registrate anche diverse epidemie di Ebola, la più feroce quella scoppiata nel 2019.

Lo Stato latita, mancano i sistemi basici essenziali e le milizie agiscono incontrastate in un luogo che è sempre più in preda all’anarchismo delle soldataglie e dei signori della guerra. Questa situazione di crisi ha provocato lo sfollamento di oltre 2 milioni di cittadini, 200.000 solo nel 2020, e l’introduzione della legge marziale nelle province orientali da parte del Presidente Thsisekedi, anche se ad oggi questo provvedimento non sembra aver migliorato lo stato delle cose.

I drammi del Congo hanno investito in modo diretto e tragico anche l’Italia dal momento che il 22 febbraio 2021 è morto in un agguato l’ambasciatore Luca Attansio e la sua morte è stata una perdita enorme sia per il nostro Paese che per il Congo dal momento che il diplomatico italiano era un ambasciatore atipico, idealista e di frontiera che non credeva nel fatalismo e nell’accettazione del troppo abusato modo di dire che per il Congo ormai non ci sono più soluzioni.

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