Dopo un periodo di focalizzazione obbligata sugli affari interni durato dall’immediato post-implosione sovietica all’alba degli anni Dieci del Duemila – dovuto al dissesto economico-finanziario, alla quasi-guerra civile nella Russia europea e alla pioggia di separatismi etno-religiosi tra Volga e Caucaso –, lo Stato-civiltà Russia si è riaffacciato sul balcone con vista panoramica che dà sul mondo.
A partire dalla guerra contro la Georgia, che è e resta uno dei principali eventi spartiacque del 21esimo secolo, la Russia ha progressivamente ed estesamente cercato di riaffermare il proprio antico e storico ruolo di grande potenza. Perché non v’è teatro geopolitico di rilievo che non abbia assistito al reingresso dei russi: dal Medio Oriente all’Africa, passando per l’America Latina e l’Eurasia in ogni sua frazione.
In alcuni casi, come quello africano, il Cremlino ha semplicemente capitalizzato il significativo legato sovietico, ricorrendo a tecniche, tattiche e strumenti di guerrafreddesca memoria, come armamenti, energia, mercenari, cultura e università. In altri, come quello latinoamericano, Mosca si è limitata a fiutare un’opportunità – quella della “primavera rossa” dei primi anni Duemila, rappresentata da fenomeni quali il lulismo e il bolivarismo – allo scopo di consumare azioni di disturbo nel cortile di casa degli Stati Uniti.
Dalla Georgia al Nicaragua, passando per le Terre palestinesi e la Mongolia, le mosse degli abilissimi scacchisti del Cremlino sono accomunate da una peculiarità: mai figlie dell’impulsività e dell’avventatezza, esse rispondono, sempre e comunque, a delle logiche tanto fredde quanto ferree, e tanto calcolate quanto lungimiranti. L’obiettivo del Cremlino, invero, non è mai il pedone in sé e per sé: è lo scacco matto.
V’è un modo per comprendere in profondità la logica delle azioni di Mosca nell’arena internazionale: andare alla scoperta di coloro che le hanno ispirate, suggerite e formulate. Personaggi che, contrariamente all’opinione diffusa, spesso e volentieri non appartengono a questa epoca, ma al passato remoto. Personaggi come Dmitriy Gerasimov – teorico del passaggio a nord-est –, Aleksandr Michajlovič Gorčakov – stratega del Grande Gioco –, Evgenij Primakov – preconizzatore dell’africanizzazione dell’agenda estera del Cremlino – e Lev Gumilëv – il padre fondatore dell’eurasiatismo.
Lev Nikolaevič Gumilëv nasce a San Pietroburgo il primo ottobre 1912. Figlio d’arte – i genitori erano lo scrittore Nikolai Gumilev e la poetessa Anna Akhmatova –, Gumilëv cresce e si forma all’interno della neonata Unione Sovietica, assistendo all’assassinio del padre da parte della Čeka in tenera età – fu giustiziato nel 1921.
Ribelle e anticonformista, Gumilëv avrebbe trascorso la giovinezza alternando università e prigionia, venendo fermato e arrestato più volte in qualità di sorvegliato speciale del Commissariato del popolo per gli affari interni (NKVD, Народный комиссариат внутренних дел).
Neanche l’arruolamento nelle forze armate, che nel 1945 lo condusse a combattere a Berlino, lo avrebbe salvato dalle maglie della (in)giustizia nel secondo dopoguerra. Tradotto in arresto nel 1949, e condannato a dieci anni in un campo di lavoro, Gumilëv sarebbe stato il testimone infelice di un ignominioso tentativo di mediazione tra sua madre Anna Akhmatova e Stalin.
Costretta a realizzare un canto corale in onore del dittatore sovietico – un ditirambo – in cambio della libertà propria e del figlio, la Akhmatova avrebbe ottenuto soltanto la prima. E lui, Gumilëv, inconsapevole dell’inganno, avrebbe trascorso gli anni successivi serbando rancore nei confronti della madre, misinterpretando quel gesto di amore materno.
Tornato letteralmente a nuova vita nel dopo-Stalin, Gumilëv sarebbe stato riscoperto, rivalutato e valorizzato tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Non più visto dal pubblico (e dalle autorità) come un eterno dissidente, ma per quello che era realmente – uno studioso appassionato di geografia, etnologia e storia dei popoli russi e turchici –, Gumilëv avrebbe fatto carriera all’interno dell’Hermitage e dell’università di Leningrado (oggi università statale di San Pietroburgo) e trovato un caldo accoglimento presso gli ambienti accademici e intellettuali.
Erudito, austero e contornato da un velo quasi-mistico agli occhi dei colleghi, Gumilëv avrebbe ottenuto tanta popolarità quanto avrebbe suscitato discordia e divisione. Le sue idee sull’eurasiatismo, invero, catturavano l’attenzione della classe dirigente e dei decisori politici, ma il suo persistente protendere verso il cospirazionismo e l’antigiudaismo lo avrebbe reso inviso agli occhi di buona parte di intellettuali, sostenitori e politici.
Affascinante ma polarizzante ed ecumenico ma giudeofobo, Gumilëv avrebbe conseguito la più elevata popolarità e i più grandi riconoscimenti negli ultimi anni di vita, corrispondenti, tra l’altro, alle ultime fasi dell’Unione Sovietica. E in ragione del suo contributo significativo alla causa eurasiatistica, pochi anni dopo la morte – avvenuta il 15 giugno 1992 –, il presidente kazako Nursultan Nazarbaev avrebbe intitolato la più importante università del Paese a suo nome, ribattezzandola l’università nazionale eurasiatica L. N. Gumilëv (Евразийский Национальный университет имени Л. Н. Гумилёва).
Gumilëv può essere considerato un seguace del determinismo in ogni sua forma: biologico, ambientale e persino geografico. I popoli, spiegava il pensatore russo, non sono che il riflesso del loro patrimonio genetico, tramandatogli dagli antenati, e del loro habitat naturale, il cui modo di plasmare le genti varia a seconda delle sue peculiarità (confini fluidi o rigidi, montagne o valli, temperature alte o basse, eccetera).
E i popoli, tutti, al di là delle loro caratteristiche, nel pensiero gumilëviano affrontano un processo di sviluppo lineare e progressivo (etnosi), diviso in stadi evolutivi – ascesa, acme, rottura, inerzia, omeostasi e memoriale –, che li accompagna dalla nascita alla morte. L’apogeo di questo processo civilizzazionale sarebbe costituito dall’acme, dove si registra la prevalenza dei “passionari” sugli inerti: uomini e donne che alla stasi culturale preferiscono la produttività, che all’individualismo prediligono il comunitarismo e che, soprattutto, sono protesi verso la conquista di nuovi territori perché guidati da uno “spirito marziale”.
Le civiltà e i popoli, in breve, fioriscono quando dominate dai passionari e appassiscono quando, superata la fase dell’acme, si addentrano negli stadi involutivi che le condurranno al decesso. Secondo Gumilëv, un caso particolarmente evidente di civiltà che, concluso il ciclo della passionarietà aveva abbracciato l’oscurità della fine, era costituito dall’Europa.
Una civiltà più unica che rara, invece – perché ancora passionaria, perché forgiata dalla guerra sin dai primordi, perché stanziata su un lebensraum senza eguali dal punto di vista climatico e botanico-pedologico e perché plasmata dalla mescolanza con i popoli nomadi-guerrieri turco-mongoli –, sarebbe stata quella russa. I russi, non a caso, venivano definiti da Gumilëv in termini di portatori di un “super-ethnos“, cioè i figli della combinazione di più ethne. Ragion per cui, contrariamente alla vulgata, il pensatore russo invitava a rivalutare positivamente il periodo dell’invasione mongola della Rus’ di Kiev.
Gumilëv è stato oggetto di una rivalutazione tardiva già in vita, ovvero durante le ultime fasi dell’epopea sovietica, ma è soltanto dopo la sopraggiunta morte che è stato introdotto nell’Olimpo dei padri fondatori dell’eurasiatismo e degli intellettuali più importanti della storia russa.
Nonostante il persistere delle accuse di cospirazionismo giudeofobico – credeva che i ricchi mercanti ebrei della Rus’ di Kiev avessero avuto un ruolo nell’assoggettamento degli slavi ai tataro-mongoli, vedendo due prove di ciò nei loro buoni rapporti coi vari khan e nelle ondate di conversioni all’ebraismo dei cazari –, Gumilëv, oggi, ha cessato di rappresentare un personaggio divisivo, controverso e censurato dalla condanna della memoria. Perché Gumilëv, al contrario, è stato investito di nuova legittimità proprio dal Cremlino, da Vladimir Putin in persona.
Citato periodicamente dal longevo presidente della Russia, il pensiero gumilëviano appare nel corso di appuntamenti con il mondo accademico, di dibattiti parlamentari e, ultimo ma non meno importante, in occasione dei discorsi annuali all’assemblea federale. E il perché di questa riabilitazione post-mortem è tanto chiaro ai russi quanto semisconosciuto agli occidentali: Gumilëv inquadrava il collasso dell’odiata Unione Sovietica all’interno della seconda fase del ciclo evolutivo delle civiltà – quella discendente – e Putin, l’Uomo inviato al Cremlino dallo Stato profondo per porre fine al caos eltsiniano, ha creduto fermamente, sin dai primordi, nell’imperativo di portare a compimento la missione storica di dotare il popolo russo di un’identità con la quale affrontare le sfide del 21esimo secolo.
Prevarranno i passionari, avrebbe spiegato Putin all’assemblea federale nel 2016, citando Gumilëv. E i passionari sono coloro che possiedono “l’abilità di andare avanti ed abbracciare il cambiamento”. Sono coloro dalla cui volontà di potenza dipende il futuro delle nazioni. Sono coloro che, come Cristo costretto dai legionari a raggiungere il Golgota tra mille supplizi – da qui il loro nome –, sono l’energia interiore delle nazioni e rappresentano la loro unica speranza di redenzione, salvezza ed, eventualmente, resurrezione. E la Russia dell’era Putin, tra ritorno del Sacro nella vita pubblica e rinazionalizzazione delle masse, non aspira ad altro che a forgiare nuove generazioni di passionari.