1994, quando gli Usa erano pronti ad attaccare la Corea del Nord

Nel 1994 gli Stati Uniti avevano deciso di attaccare la Corea del Nord. Bill Clinton, all’epoca presidente, informò l’allora primo ministro giapponese Morihiro Hosokawa delle intenzioni statunitensi, chiedendo il supporto di Tokyo.

Alla fine Clinton non sferrò alcun attacco aereo per due ragioni: il Giappone non avrebbe potuto fornire il supporto richiesto dagli Usa (a Tokyo era costituzionalmente vietato) ma, soprattutto, gli analisti americani pensavano che il Nord sarebbe crollato di lì a pochi anni sotto il peso delle sanzioni.

Nell’ottobre di quell’anno Washington e Pyongyang raggiunsero l’intesa su un accordo quadro. I nordcoreani avrebbero dovuto congelare lo sviluppo delle loro armi nucleari in cambio della consegna americana di forniture annuali di carburante, in modo tale che il Nord potesse continuare ad avere elettricità fino alla costruzione di reattori nucleari ad acqua leggera, meno pericolosi per ipotetici e ulteriori sviluppi bellici dell’arsenale locale.

L’implementazione dell’intesa procedette però a rilento e la Corea del Nord riprese ben presto i suoi programmi. Oggi, 28 anni dopo, la Corea del Nord è ancora in piedi. Ha modernizzato il suo arsenale e si appresta ad effettuare nuovi lanci missilistici e test nucleari. A conferma del fallimento completo della politica di contenimento immaginata da Washington.

Nel giugno 1994 gli Stati Uniti pensarono di attuare il cosiddetto Piano operativo 5027 (OPLAN 5027), ovvero il piano di guerra da impiegare in caso di un ipotetico attacco della Corea del Nord. La decisione di Washington era dovuta al timore che Pyongyang potesse considerare l’accumulo di truppe Usa nella regione, così come altri movimenti militari statunitensi in corso, come segnali di un imminente attacco americano. In tal caso, pensavano gli alti comandi militari Usa, il Nord avrebbe quasi sicuramente lanciato un’offensiva verso il Sud.

Il Pentagono preferiva in realtà optare per l’opzione intermedia, consistente nello spostare nell’area 10mila truppe, vari F-117A e un gruppo di portaerei. Pare ci fossero anche piani per attaccare, e quindi eliminare, l’impianto nucleare nordcoreano di Yongbyon con gli F-117 e con i missili cruise, così da impedire alla Corea del Nord di creare ordigni nucleari. Era questo, in sostanza, il motivo alla base della decisione Usa. Questo piano fu tuttavia annullato quando l’ex presidente americano Jimmy Carter incontrò Kim Il Sung. I due trovarono una sorta di intesa sulla base di quello che sarebbe diventato l’accordo quadro.

Gli Stati Uniti volevano a tutti costi impedire che la Corea del Nord potesse dotarsi dell’arma nucleare. A quel punto, infatti, la situazione sarebbe cambiata sensibilmente, così come la minccia di Pyongyang nei confronti di Seoul e di Washington. Clinton era quindi pronto a sferrare un attacco aereo contro il Nord. Gli Usa chiesero al Giappone di partecipare alla sortita, dopo aver messo in dispiarte lo spinoso nodo dello squilibrio commerciale all’epoca esistente tra i due Paesi. Tokyo rifiutò però per motivi costituzionali.

Come se non bastasse, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite stava iniziando ad esser attraversato da accese discussioni sulle sanzioni che avrebbero dovuto travolgere la Corea del Nord. L’amministrazione Clinton decise così di non portare avanti gli attacchi aerei. Il pensiero da parte degli Stati Uniti era uno soltanto: Pyongyang sarebbe crollata da sola, prima o poi, anche senza l’intervento di Washington. Nel bel mezzo di questa crisi, inoltre, Kim Il Sung morì, rafforzando l’idea che il Nord avrebbe presto dovuto fare i conti con un’implosione.

Le statue dei presidenti Kim Il Sung (Sx) e Kim Jong Il (Dx)

A metà ottobre, nel 1994, le delegazioni di Stati Uniti e Corea del Nord raggiunsero un accordo quadro nell’intenzione di allentare le tensioni sui controlli degli impianti nucleari nordcoreani. Il timore di Washington era che il Paese, all’epoca governato da Kim Jong Il, padre dell’attuale presidente Kim Jong Un e da poco succeduto a Kim Il Sung, potesse ben presto dotarsi di armi nucleari capaci, nel medio-lungo periodo, di minacciare tanto la Corea del Sud quanto gli Stati Uniti. Robert Gallucci, a capo della delegazione Usa, definiva l’accordo “ampiamente accettabile e positivo” e in grado di rispondere agli interessi della sicurezza degli Stati Uniti, del Giappone e della stessa Corea del Nord.

La bozza, partendo dalle preoccupazioni sollevate dal programma nucleare perseguito da Pyongyang, sviluppava un precedente accordo raggiunto dalle due parti un mese prima, con il quale il Nord proponeva l’apertura dei suoi impianti nucleari alle ispezioni internazionali. Oltre a questo i nordcoreani si impegnavano ad annullare il programma di sviluppo della produzione di energia atomica per mezzo di una tecnologia antiquata, una tecnica che produceva altro plutonio teoricamente utilizzabile a scopo militare. Washington metteva sul tavolo l’allacciamento di relazioni diplomatiche e aiuti di vario tipo che avrebbero permesso a Kim di ottenere impianti nucleari più sicuri e moderni.

Sembrava che l’accordo quadro di ottobre fosse il primo passo verso la distensione e la fine delle tensioni. Così non fu. I passi successivi furono lenti, e neanche troppo convincenti. Gli ispettori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, per ben due settimane, ispezionarono la maggior parte degli impianti nucleari della Corea del Nord. All’AIEA fu però impedito di monitorare il principale impianto radiochimico nordcoreano usato da Pyongyang per ritrattare il carburante.

I nordcoreani, intanto, riattivarono segretamente il loro programma in materia di armamenti. L’accordo cadde definitivamente nel vuoto, così come i colloqui tra Stati Uniti e il Nord. Washington aveva appena perso un’occasione d’oro per spingere Pyongyang a congelare la sua road map nucleare. Nel giro di pochi anni gli Usa e la Corea del Sud rafforzarono la loro cooperazione militare, chiudendo per sempre la porta al possibile accordo quadro del ’94.

L’approccio adottato dagli Stati Uniti si rivelò fallimentare. Non solo a Kim Il Sung successe senza problemi il figlio Kim Jong Il, che a sua volta passò poi il potere al figlio Kim Jong Un nel 2011. La Corea del Nord, al netto delle sanzioni, riuscì a mantenersi in piedi centrando discreti risultati militari. Nei decenni a seguire Pyongyang avrebbe sviluppato il nucleare e modernizzato il proprio arsenale missilistico.

L’attuale situazione ricorda per certi versi la crisi del 1994, con il Nord che continua ad avanzare sulla via della modernizzazione militare. Ci sono tuttavia alcune differenze che rendono lo scenario ancora più pericoloso. Intanto Pyongyang può oggi vantare un arsenale di tutto rispetto. Dopo di che bisogna considerare Cina, che negli anni ’90 non era ancora una grande potenza ma che adesso ha voce in capitolo in merito alla questione coreana. Basti pensare che il bilancio della difesa di Pechino si è moltiplicato di 40 volte in tre decenni, mentre il suo prodotto interno lordo nominale è cresciuto ancora più velocemente.

Ma c’è un altro aspetto da tenere sotto controllo. Il Giappone, quando fu interpellato da Clinton, nel ’94 rifiutò di partecipare allo strike aereo contro il Nord. Ora, la legislazione sulla sicurezza approvata nel 2015 consentirebbe teoricamente a Tokyo di esercitare il suo diritto all’autodifesa collettiva in situazioni ritenute minacce alla sua sopravvivenza. Come se non bastasse, se Washington avesse lanciato attacchi aerei contro la Corea del Nord nel 1994, la Cina non sarebbe stata in grado di fare nulla al riguardo. Che cosa potrebbe succedere, nel worst case scenario, nel caso in cui gli Stati Uniti dovessero riproporre oggi uno schema simile a quello del ’94?

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