Un sigaro alle labbra in ogni scatto, il whisky di puro malto fin dal mattino, primissimo mattino, la vita di un personaggio di Haggard e il temperamento di un leone. Tanto caparbio da convincere una nazione ridotta allo stremo a continuare a combattere una guerra che tutti reputavano già persa. Da convincere un popolo, prima che un esercito, a “non arrendersi mai”. “Never give in. Never give in. Never, never, never, never – in nothing, great or small, large or petty – never give in, except to convictions of honour and good sense”, disse a se stesso e agli inglesi nel 1940; quando la Gran Bretagna era rimasta l’unica, sola nazione d’Europa libera dal nazismo che imperversava da Capo Nord ai Pirenei, e aveva mostrato di poter conquistare le capitali avversarie in appena una o due settimane di “blitzkrieg“, la nuova “guerra lampo”.
I suoi discorsi ricordano quelli che Shakespeare scrisse in punta di pennino per Enrico IV, e di fatto lui, come il più grande poeta anglosassone, li scriveva in piena notte – poiché era di notte che lavorava, mentre di giorno dormiva, scatenando lo sdegno della casa reale e dei membri del parlamento che non sapevano cedere al suo carisma ipnotico. Non era meno bravo a scrivere a braccio, tuttavia; come accadde quando osservando una squadriglia di piloti della Royal Air Force che correvano ai loro apparecchi per volare a combattere i bombardieri di Hitler che puntavano al cuore di Londra. Si appuntò la frase che più di tante altre è rimasta nel cuore fiero e riconoscente di ogni inglese:
Mai, nella storia degli umani conflitti, tanti devono così tanto, a tanto pochi
Perché il caso vuole che nei cieli della battaglia d’Inghilterra gli inglesi combatterono uno contro cinque, come nella battaglia di Azincourt. E al termine di quel confronto, tra le macerie di Londra e quei pochi che giorno dopo giorno divenivano meno, fu proprio Sir Winston Leonard Spencer Churchill a dimostrare al mondo che il nazismo poteva essere sconfitto. Cambiando le sorti della storia che sembravano già scritta. Mostrando ancora una volta il segno che lo avrebbe reso celebre ai posteri: le dita di quella piccola mano di uomo che simboleggiavano la “V” di vittoria.
Nato nel 1874, Winston Churchill era primo erede di una famiglia dell’alta aristocrazia londinese che annovera tra i suoi altisonanti antenati niente di meno che John Churchill, primo duca di Marlborough e comandante della coalizione di eserciti che per merito delle sue personali innovazioni tattiche e logistiche sconfisse la Francia del Re Sole, riportando l’Inghilterra ad essere potenza del Vecchio Continente dopo quasi un secolo. Un talento, il suo, che evidentemente venne tramandato al piccolo Winston, bambino gracile e studente svogliato, puntualmente ultimo della sua classe in collegio – sia ai tempi di St. Georges che a quali di Harrow – ma al contempo lettore appassionato, che subisce la fascinazione di romanzi d’avventura come L’isola del tesoro di Stevenson e Le miniere di Re Salomone di Haggard; e che si rivela precoce stratega. Non vede l’ora ti tornare a casa con la sua collezione di soldatini della quale andava ben fiero. “Una collezione di ben mille pezzi”, si vantava; e in età adulta rivelava: “Quanto odiavo la scuola, e che vita angosciata ho vissuto allora. Contavo i giorni e le ore che mancavano alla fine di ogni trimestre, quando sarei tornato a casa da quella schiavitù odiosa avrei finalmente schierato i miei soldatini in battaglia sul pavimento della mia camera dei giochi”. Una confessione che allora non avrebbe potuto lasciarsi sfuggire nemmeno con l’adorata e libertina madre, “Lady Radolph”. E tanto meno con quel padre severo, l’ex cancelliere dello Scacchiere Lord Randolph, che a suo dire era “come Dio: sempre impegnato altrove”. Tranne quando impiegò l’influenza della sua posizione per raccomandarlo al Royal Military College e per fargli poi concedere un brevetto “speciale” per essere accettato nei fucilieri di sua Maestà. Il primo passo verso quella vita avventurosa che il giovane irrequieto Churchill aveva sempre sognato. Nonostante la perenne mortificazione subita dal padre, che fin dalla giovane età aveva sempre visto in lui più che un piccolo genio militare, un futuro anonimo e avvocato.
Nel 1895, quando il giovane Winston entra in cavalleria con il grado di luogotenente nel 4° Ussari, suo padre è trapassato da appena quattro, e lui, appena ventenne, è già uomo avvezzo al vizio. Già negli ultimi di collegio aveva scoperto un debole per i sigari, promettendo a sua madre di smettere di fumarne per non contrariarla: “Non li amo così tanto”; e promettendo a suo padre “Non più di uno al giorno”. Sapendo fin da allora di mentire e confermando la sua menzogna l’anno seguente, quando in viaggio a Cuba seguì in prima persona il generale Valdez e il suo corpo di volontari in lotta per l’indipendenza dagli spagnoli: avventura durante la quale avrebbe scoperto insieme il fascino dell’azione, l’amore per i veri puros cubani Romeo y Julieta (che in seguito gli dedicherà un sigaro con il suo nome), e la passione per il giornalismo. Iniziando a inviare proprio da lì le prime “lettere dal fronte” al Daily Grapich. Dispacci che vennero pubblicati alla firma di un tale W.S.C..
Lo stesso fece mentre era di stanza con il suo reggimento in India, lambita lungo i confini dalla rivolta afgana; in Egitto, e in Sudan, dove prese parte alla celebre carica di Omdurman con il 21° reggimento Lancieri. Durante queste azioni, inviava dispacci che venivano pubblicati dall’autorevole Daily Telegraph – restando sempre ben conscio dei grandi rischi che poteva correre in prima linea un soldato come lui: così affascinato da ciò che accadeva gli accadeva intorno, mentre sulla sua testa fischiavano le pallottole nemiche, da rischiare la vita per raccontare efficacemente la battaglia. Scriverà alla madre: “Una piccola avventura potrebbe assicurarmi la più elevata di tutte le ricompense (si riferiva alla Victoria Cross, medaglie d’encomio al coraggio, ndr) o mettere fine al gioco“. Un gioco che per lui valeva la candela, non essendoci nulla di più importante ai suoi occhi, che la gloria dell’Impero.
Nell’ultimo anno del XIX secolo, il temerario inviato di guerra partì alla volta del Sud Africa, dov’era in corso la seconda rivolta delle repubbliche boere indipendenti, la Repubblica del Transvaal e lo Stato Libero d’Orange, che reclamavano l’indipendenza dall’Impero Britannico. Quale inviato per il Morning Post, non è ufficialmente inquadrato in alcun reggimento, ma viaggia al seguito dei soldati di sua Maestà, indossa abiti di taglio militare, e porta con sé una fondina con la sua Mauser C 96, pistola di fabbricazione tedesca acquistata privatamente. Il 15 novembre del 1899 il treno corazzato sul quale viaggiava alla volta della linea viene colpito da una granata e deraglia. Churchill, che si trova nel bel mezzo dell’azione, è pronto a prendevi parte, ma viene circondato dagli afrikaner con i fucili spianati, ai quali dichiara con le mani in alto: “Sono un giornalista.. E mi arrendo”. Sarà un giornalista italiano che combatte con i boeri a credergli e a salvargli la vita (dato che la sua pistola è caricata con dei proiettili “dum-dum” che sono proibiti dalle convenzioni di guerra dell’Aja). Iniziò così una delle più grandi avventure della sua vita. Dopo essere stato condotto in una prigione a Pretoria, tenta una rocambolesca evasione che va a buon fine, e lo rende un “ricercato speciale” in tutto il Transvaal. I giornali diffondono subito l’informativa:”Un uomo alto 1 metro e 73 cm, dalla camminata leggermente curva, colorito pallido, con i capelli rossi scuri e i baffi quasi impercettibili, voce nasale, che non sapeva parlare olandese e pronuncia male la lettera “s”. È proprio il giovane e irrequieto Churchill, che però riuscirà a raggiungere il Mozambico, allora in mano ai portoghesi, per poi tornare in patria e redigere un altro sensazionale resoconto dal fronte: “London to Ladysmith via Pretoria”.
In una delle dozzine di biografie dedicate alla sua vita, Boris Johnson, oggi primo ministro della Gran Bretagna scrive: “Neanche trentenne, Winston Churchill era lo scrittore più pagato d’Inghilterra all’inizio del Novecento” (nel 1953 sarà anche Nobel per la letteratura). Prima ancora di intraprende la carriera politica, che avrebbe impresso la sua vita nella leggenda, egli aveva già infatti scritto cinque best-seller (compresa la biografia del padre), e incassato “250 sterline al mese per essere stato inviato di guerra nello scontro che si consumava tra l’esercito britannico e i Boeri”. L’anno seguente, quel giovane irrequieto avrebbe messo piede, per la prima volta come “politico” nel palazzo di Westminster. L’ascesa del leone, era scritta.
Entrato in politica del anno del XX secolo, Churchill si siede tra le fila dei conservatori, per poi passare ufficialmente all’ala liberale – mostrando fin dal primo momento una certa avversione per la visione socialista che tende ad annullare ogni individualismo – e ottenere il primo ruolo ministeriale quale sottosegretario alle Colonie nel 1904. L’anno seguente sarebbe diventato ministro del Commercio nel 1905. Sarà anche ministro degli Approvvigionamenti, Segretario di Stato, e Cancelliere dello Scacchiere, come suo padre.
Negli anni precedenti allo scoppio della Grande Guerra, gli viene assegnata la carica di Primo Lord dell’Ammiragliato, essenzialmente il capo politico della Marina militare britannica, all’interno della quale avvia un programma di ammodernamento che prevedere una serie di importanti, quanto essenziali, cambiamenti della Royal Navy – compresa la creazione, quale pioniere dell’aria convinto sostenitore di quella nuova tecnologia – di una forza aerea navale (Royal Naval Air Service), che sviluppa su ordine di Churchill le tattiche aeronavali che avrebbero segnato il futuro dei conflitti di tutto il secolo.
Nel 1915 fu uno dei maggiori sostenitori e dei pianificatori dello sbarco di Gallipoli: un’operazione anfibia lanciata contro le coste turche che si tramuterà in una carneficina per il corpo di spedizione australiano e neozelandese (ANZAC) a causa di per una serie di errori logistici e strategici. Questo pesante fallimento, che si concluse con una bruciante ritirata e con la perdita di ben 25mila uomini sulle alture che dominano i Dardanelli, costringerà Churchill a dare le dimissioni da Lord dell’Ammiragliato, e lo tormenterà per il resto della sua vita. Ripresi i gradi nell’Esercito, comanda il VI battaglione dei Royal Scots Fusiliers. Finisce la guerra in Francia, ma senza sparare un colpo.
Al termine del conflitto, gli viene affidata la risoluzione dell’intricata e complessa “questione mediorientale”. Scriverà di lui un certo tenente colonnello T.E. Lawrence, di cui diviene amico stretto: “A Winston è stato affidato il compito di definire l’assetto del Medio Oriente; e in poche settimane, alla Conferenza del Cairo, ha sbrogliato l’intera matassa, trovando soluzioni che adempiono (io credo), alle nostre promesse nella lettera e nello spirito”. Nasceranno così l’Iraq moderno, la Siria, e quella che fu la Palestina, tradendo il sogno di quel colonnello che gli arabi chiamavano Lord Dinamite. Allora Winston è un 40enne che ha vissuto le emozioni narrate dai grandi scrittori d’avventura dell’epoca vittoriana, e decide di intraprendere a tempo pieno la carriera politica togliendosi di dosso l’uniforme. Almeno per un decennio.
Quando le divisioni meccanizzate di Hitler invadono la Polonia nelle primo ore del 1° settembre del 1939, Winston Churchill è ormai un politico che ha temprato negli anni la sua figura di uomo irriverente, dotato di una certa dose di saggezza e lungimiranza, ma anche di un tagliente, quanto seccante, sense of humor. I suoi detrattori sono solito attaccarlo per le sue debolezze come prima o ultima ratio: il suo essere avvezzo al bere alcolici, che spesso comporta delle uscite schiette, quanto infelici per gli interlocutori (celeberrima la bagarre con Lady Astor, che accusandolo pubblicamente di essere “disgustosamente” ubriaco ricevette come risposta “My dear you are ugly, but tomorrow I shall be sober and you will still be ugly”); e il suo fallimento sui Dardanelli che non ha mai smesso di tormentarlo “profondamente e incessantemente”, come ha sempre confessato. Mentre nei riguardi della prima era solito affermare: “Ho tratto più io dall’alcol di quanto l’alcol abbia tratto da me“. Per la seconda non ci fu mai antidoto o palliativo. Almeno fino a quando non gli venne accreditato il più grande trionfo della sua vita.
Il 3 di settembre, appena due giorni dopo l’invasione della Polonia, Londra ode per la prima volta il rumore delle sirene anti aeree, un frastuono inquietante che scandirà le giornate dei futuri cinque anni della sua vita. Tra le poche cose che agguanta Churchill mentre viene condotto nei bunker sotterranei, c’è proprio una bottiglia di brandy, che sorseggerà pensando all’ennesima ragione che si è guadagnato a dispetto dei suoi avversari ai tempi degli accordi di Monaco. Una ragione che nessun uomo avrebbe mai voluto ottenere:
Potevano scegliere fra il disonore e la guerra. Scelsero il disonore e avranno la guerra
E la guerra infatti, di lì a pochi mesi sarebbe tornata. E sarebbe stata per la seconda volta una guerra mondiale.
Secondo Churchill, già allora il Regno Unito non avrebbe dovuto combattere per “Danzica o per la Polonia”, ma avrebbe dovuto “combattere per salvare il mondo intero dalla tirannide nazista e in difesa di tutto quanto vi è di più sacro per l’uomo”. Si riferiva, semplicemente, alla libertà. Il governo di Londra però tentennava, cercando la via diplomatica e fidandosi delle promesse dispensate da atteches militari e ambasciatori, italiani e tedeschi. Proprio in quegli stessi giorni, Churchill venne rinominato primo Lord dell’Ammiragliato; data la sua indubbia conoscenza delle tattiche aeronavali e il futuro in certo delle sorti. Ma il vecchio leone già presagiva ciò che il destino aveva messo in serbo per il suo futuro.
Quando Neville Chamberlain, primo ministro con il quale Churchill aveva a lungo condiviso una inimicizia reciproca, si reca a Bukingam Palace per comunicare al Re che il parlamento intende creare un governo interpartitico di laburisti e liberali che lui non può presiedere, i nomi che giacciono sulla scrivania per “prendere il suo posto” sono solamente due: Halifax e Churchill. Il primo sembra essere il favorito, ma a malincuore saranno costretti a propendere per il secondo, che sceglierà fin dal primo momento la via della sincerità, sia agli occhi della Camera di Comuni, che deve concedergli la fiducia per presiedere il governo, sia a quelli dell’intero Regno: “Non ho nulla da offrire se non sangue, fatica, lacrime e sudore. Abbiamo davanti a noi molti, molti lunghi mesi di lotta e di sofferenza”. E così sarebbe stato. In pochi mesi le armate del Terzo Reich avevano invaso Polonia, Belgio, Paesi Bassi, Danimarca, Norvegia, Lussemburgo, e in fine aveva ha messo in ginocchio la Francia: l’alleato su cui Churchill contava più di tutti, e che era stato costretto a capitolare in poche settimane.
La grande ritirata del corpo di spedizione britannico a Dunkerque aveva mostrato una terribile e spaventosa verità a Londra: l’isola di Albione era rimasta sola davanti all’invincibile armata di Hitler; che al di là della Manica, preparava l’invasione dell’Inghilterra. Fu allora che il leone pronunciò il discorso che rimase nella storia: “Combatteremo sui mari e gli oceani, combatteremo con fiducia crescente e con forza crescente nell’aria, difenderemo la nostra isola a qualunque costo. Combatteremo sulle spiagge, combatteremo nei luoghi di sbarco, combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline, non ci arrenderemo mai; e se, cosa che non credo neanche per un momento, quest’isola o gran parte di essa fosse soggiogata e affamata, allora il nostro impero d’oltremare, armato e guidato dalla flotta britannica, continuerà la lotta fino a quando, se Dio vorrà, il Nuovo Mondo, con tutta la sua forza e potenza, si muoverà al salvataggio e alla liberazione del vecchio.”
Quella manciata di parole sarà sufficiente ad infiammare gli animi di tutto l’Impero. Che ovunque, nelle terre oltremare, rispose al primo ministro e alla chiamata alle armi. La vittoria nei cieli della Battaglia d’Inghilterra, prima sconfitta subita dalle truppe di Hitler dall’inizio del conflitto, è più che determinante. Per mettere al sicuro l’Inghilterra, e per mostrare al mondo che si può resistere. La seconda vittoria, quella di El Alamein, rovescerà definitivamente le sorti del conflitto, dove nel frattempo sono entrati gli Stati Uniti d’America.

Parafrasando il famoso motto di Churchill, potremmo dire che: “Mai tanti furono debitori di tanto a un solo uomo”. Poiché oltre al sacrificio di milioni di soldati, marinai e piloti, all’operato dei membri dell’intelligence, a quello della resistenza nei paesi occupati, e financo alla instancabile macchina bellica statunitense, che con la sua disponibilità di armi e mezzi che contribuì in maniera determinante nella vittoria della guerra; è all’uomo che rimase fermo, imperterrito, solo dinanzi alla tempesta, che va riconosciuto il merito di aver spronato quel che restava del mondo libero a combattere per la libertà; con il suo immancabile farfallino al collo, il sigaro in mano, e i suoi modi indelicati di gettare in faccia ad ogni interlocutore la più cruda verità; quell’uomo nato timido, che a scuola era stato bocciato due volte e che secondo il padre era destinato all’anonima carriera di avvocato. Lo stesso che un giorno si perdette nella metro di Londra perché non l’aveva mai presa, ma osservava i bombardamenti su Londra dai tetti del palazzo Whitehall per sapere per primo quali quartieri sarebbero stati colpiti. Che adorava schiacciare pisolini al pomeriggio e che era “alticcio” già a metà mattina; ma si riconosceva una sola debolezza: l’amore per i gatti come il suo Jock. L’uomo che più di ogni altro sconfisse Hitler. Convincendo il mondo a non arrendersi. Mai.